| 30/08/2012 | 08:41 Ogni tanto giochiamo al gioco dell’italiano che vince il Tour de France, quel Tour che ci piace ripensare adesso con calma. Lo facciamo specialmente noi che vogliamo bene al ciclismo, e che magari vediamo nella concretizzazione di questo sogno il toccasana magico di una lunga crisi. Lo vediamo perché vogliamo a tutti i costi vederlo, ma se ci ragioniamo su un attimo, non il solito attimino, dobbiamo decidere che la pur bella anzi bellissima cosa non cambierebbe nulla, o cambierebbe poco. Da quando, anno 1992, Gianni Bugno conquistò il suo secondo titolo mondiale consecutivo e a chi gli gridava “sei un campioneeee” disse in piena diretta televisiva quello che gli avevamo detto pochi giorni prima e che sicuramente lui da tempo sapeva e strasapeva, ma cortesemente finse quella volta di avere recepito da noi, disse cioè che uno per sapersi davvero campione deve avere fatto suo il Tour, dove pure lui era arrivato secondo nel 1991 e terzo in quel 1992, da allora dicevamo sono cambiate molte cose nel ciclismo.
Su tutte è cambiata vistosamente, a proposito del Tour, la geografia o se preferite la demografia, e poi è cambiato anche il suo rapporto con le leggi e le regole, e ci sono stati persino quelli che hanno vinto il Tour de France senza accorgersene, nel senso che hanno saputo della bella cosa l’anno dopo, per via della squalifica da doping di chi li aveva battuti. Non siamo più così certi che il Tour basti ad una carriera, ad una vita, non solo perché è cambiato il Tour (sino a pochi anni fa figlio legittimo della corsa che nel 1903 il creatore/inventore Henri Desgrange aveva definito il modo più rapido per diventare ricchi senza dover vincere una lotteria) o perché sia cambiato il ciclismo o semplicemente perché siamo cambiati noi: questa ultima sarebbe la spiegazione più semplice di ogni cambiamento, però troppo spesso ci sembra troppo facile sceglierla, sposarla, usarla e rifilarla ad altri. Il fatto è che davvero è cambiato il mondo attorno al Tour, attorno al ciclismo, intanto che attorno a noi stessi.
Il Tour, di suo, ha smesso di essere soprattutto una corsa contadina in quell’immenso paese contadino che è la Francia. Ha smesso di parlare francese, la lingua che è stata sino a ieri quella del ciclismo e che al Tour era celebrata, nelle feste dopo la tappa, anche nelle esibizioni di artisti famosi, perché al Tour cantavano Dalida e Gilbert Bécaud, e nessuno slittava sull’inglese, e la canzone di Claude François si intitolava “Comme d’habitude” e non era ancora diventata, dopo un viaggio negli Usa e in bocca di Frank Sinatra, “My way”. Andavamo al Tour felici di parlare francese. Ricordo che Giovanni Mosca, il grande umorista padre del caro Maurizio televisivo buonanima, in una tappa pirenaica che sconfinava in Spagna mi invitò nella sua auto, catturò un enorme coleottero, ai doganieri francesi (allora le frontiere d’Europa esistevano eccome), che mitragliavano tutti con il loro duro “rien à déclarer” mostrò l’insetto e disse “Viande de papillon”, carne di farfalla, e l’uomo in uniforme rise e gli fece cenno di passare, “Vous parlez un bon français, monsieur”. Il Tour si è mondializzato nel senso che ha preso soldi, e tanti, per propagandare prodotti che con la Francia, con la produzione francese non hanno niente a che fare. Si è aperto alle televisioni di tutto il mondo, ha puntato sempre meno su inquadrature fortemente “paysannes”, rurali, francesi al cento per cento, ha cominciato a servire un menu di immagini diciamo internazionali: anche perché sulle sue strade si è infittita la gente di tutto il mondo, in un turismo ciclofilo magari soltanto di giornata, magari un bel po’ voyeuristico, che però ha soppiantato numericamente, diremmo demograficamente, quello tradizionale, fatto di piccoli spostamenti all’interno del paesello, o nell’opima campagna dove ormai le scenografie contadine, i quadretti contadini, i covoni ed i trattori che visti dalla telecamere sull’elicottero compongono e trasmettono la frase “vive le Tour” sembrano patetici, datatissimi. Gli stessi corridori non sono più i figli dei “forçats de la rue”, i fachiri ambulanti, hanno sul traguardo esperti in “pierre” che li gestiscono, profumano di colonia buona, risiedono a Montecarlo o alle isole Cayman, le loro donne sono belle e moderne creature che li aspettano all’arrivo, neanche parenti delle contadinotte di una volta sposate prestissimo, ai primi guadagni, mentre le vallette del cerimoniale sembrano aspiranti veline, per non dire pornostar.
E i contratti ormai sono per andare a correre in Qatar, per fare parte della ricca squadra della repubblica ex sovietica che sa di petrolio, per svernare pedalando in una corsa australiana, altro che Riviera ligure o al massimo Cote d’Azur. Finito il Tour i ciclisti importanti hanno pensato alla prova olimpica su strada, a Londra sei giorni dopo, mica alle kermesse nella provincia francese o nel vicino piovosissimo Belgio. Il Tour di una volta non c’è più, quello di adesso non basta per i nuovi appetiti. E siamo al bivio: o fare del Tour de France una corsa d’antiquariato, pregiata ma chiusa, o proiettarla in pieno nel nuovo mondo, e che il dio dello sport gliela mandi buona.
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