L'INTERVISTA. Saligari: che bello insegnare ai giovani
| 03/04/2011 | 09:39 Prima corridore, poi direttore sportivo. Prima passista combattivo, ottimo uomo-squadra, all’attacco su tutti i percorsi; poi guida, insegnante, punto di riferimento per molti giovani alle prime esperienze nel mondo del professionismo. Marco Saligari, quarantacinquenne milanese, è stato buon professionista dal 1987 al 1998: può vantare nel suo palmares 15 vittorie fra le quali tre tappe al Giro d’Italia, il Giro di Svizzera del ’93 e il 3° posto all’Amstel Gold Race del ’94; dal 2002 è direttore sportivo della Landbouwkrediet Colnago Cycling Team. Gregario di fior di campioni, fu soprannominato da Baronchelli “il commissario” perché sempre disponibile nel consigliare i colleghi. Se chiamate Marco così ancora oggi vi risponde: in effetti il nomignolo ben si adatta ad entrambi i ruoli ricoperti, prima e dopo. Com’è nata la passione per il ciclismo? «Grazie al mio carissimo amico e vicino di casa Walter, che mi ha fatto provare ad andare in bici quando avevo dodici anni. La prima volta che siamo usciti assieme in salita l’ho staccato, allora mi ha proposto di correre. Non so se l’avesse detto per scherzo o meno, ma lo presi sul serio. Ho quindi chiesto a mio papà Olimpio di comprarmi una bici. Me la ricordo come fosse ieri, una Leri, rigorosamente usata». Quali ricordi conserva dalle categorie minori? «Ho iniziato all’ultimo anno Primavera (equivalente dell’odierno G6, ndr) al CC Primavera di Muggiò. Mi divertivo tanto. Non arrivando da una famiglia di ciclisti, non avevo alcuna pressione. A Sovico la prima corsa della vita: ho percorso gli ultimi giri da solo in testa, ma sono caduto all’ultima curva perché non sapevo ancora che quando la strada svolta non si deve pedalare. Dopo l’esordio, sono arrivate sei vittorie di fila. Avevo capito che in curva è meglio non pedalare e che il ciclismo era lo sport adatto a me». Quali sono stati i suoi maestri? «Come tecnici senz’altro Luciano Menecola e Giancarlo Ferretti, due grandi uomini che mi hanno insegnato molto». Com’è stata la sua esperienza nel professionismo? «Sono sempre stato un uomo squadra, che quando era libero si è dato da fare. Avrei potuto fare il capitano in squadre piccole, ma ho sempre preferito team importanti in cui militavano grandi campioni con i quali condividere vittorie di prestigio. Diciamo che in carriera ho vinto poco, ma bene. Non posso lamentarmi». Quale il successo che più ha a cuore? «La prima tappa al Giro (quella di Sondrio) nel ’92. È stata la prima vittoria davvero importante, che mi ha permesso di rompere il ghiaccio. In più sono valtellinese d’origine, quindi meglio di così…». Il rammarico per cui ha ancora l’amaro in bocca? «L’Amstel Gold Race del ’94 vinta dal mio compagno di squadra Johan Museeuw. Tra noi due quel giorno ero il più forte, ma mi sono messo al suo servizio perché lui mi aveva chiesto una mano dopo i due secondi posti di fila che aveva collezionato in una campagna deludente. Facendogli da gregario ho sicuramente ricevuto un bel regalo in termini economici, ma a ripensarci avrei potuto giocarmi le mie carte. Non ho mai vinto una classica così importante». Gli avversari più forti che ha incontrato? «Beh, negli anni in cui ho corso c’erano in gruppo grandi campioni. Era l’epoca in cui Moser e Saronni stavano concludendo la loro carriera e giovani come Indurain e Rominger conquistavano le loro prime vittorie. Con quelli non c’era storia. A mio livello mi viene un nome: Maurizio Fondriest». I compagni di squadra insostituibili? «Su tutti Alberto Elli e Pascal Richard». Sceso dalla bici, che ha fatto? «Ho seguito dei corsi per diventare tecnico e iniziato una collaborazione con Eurosport, che continua tutt’ora. Quando non sono impegnato con la squadra mi occupo del commento tecnico delle gare di ciclismo». Poi è arrivata la proposta di Ernesto Colnago… «Sì, quando Yaroslav Popovych è passato al professionismo. Praticamente dopo quattro anni dal mio stop, nel 2002, ho iniziato quest’avventura con la Landbouwkrediet, che dopo otto anni continua magnificamente». Come deve essere un buon direttore sportivo? «Per rispondere a questa domanda mi bastano tre aggettivi. Preparato: intendo a 360° e non solo tecnicamente. Autorevole: molti ds sono solo autoritari. Giusto: non si può pretendere dai ragazzi quello che non si mette in pratica in prima persona, conta molto il buon esempio. L’esemplificazione del perfetto ds è il “Ferretti prima maniera”». Cosa può dare di più un ex atleta in ammiraglia ai propri ragazzi rispetto a una persona che non ha corso? «Nulla. Ci sono ottimi tecnici, che non hanno mai corso e pessimi tecnici che sono stati grandi campioni. Per guidare al meglio una squadra bisogna entrare nella testa di 15/20 persone, ma il grande campione è egoista; si deve essere un buon organizzatore, prima bisogna pensare a chi sta alle tue direttive poi a te, cosa non semplice per chi da sempre è trattato da numero uno. Da corridore sei servito e riverito, da ds no, devi pensare a tutto». Da nove anni è fedele alla Landbouwkrediet. Vorrebbe un giorno guidare un team italiano? «Se qualcuno me lo proporrà sì, ma al momento mi trovo bene dove sto. È un progetto stimolante perché mi permette di stare a contato coi giovani molto acerbi, per intenderci cinque dei ragazzi con cui lavoro quest’anno sono del ’92. L’unico aspetto negativo è che gli atleti crescono da noi e poi se ne vanno, però con ragazzi che hanno molto da imparare si lavora bene». Quale il momento più bello da ds? «Il terzo posto conquistato con Yaroslav Popovych al Giro d’Italia nel 2003, con una squadra che alla partenza non aveva alcun credito. È stata una bella emozione». Quale il più brutto? «La caduta di Yuriy Metlushenko nella terza tappa dell’Etoile de Besseges del 2002. Il velocista ucraino porta ancora oggi i segni di quell’incidente. Quanta paura ho provato quel giorno! Al solo ripensarci, mi viene la pelle d’oca…». Meglio correre o meglio dirigere? «Meglio correre, tutta la vita. Gareggiare in prima persona è senz’altro più divertente, io non l’ho mai visto come un lavoro e mi sono sempre ritenuto un privilegiato che di professione poteva fare ciò che più amava: andare in bici». Com’è il ciclismo del 2011 rispetto a quello in cui correva lei? «È cambiato moltissimo, si vedono ancora atleti che corrono per vera passione, ma sono sempre meno. Oggi i ragazzi sono più superficiali, fanno meno sacrifici. In più le squadre erano più unite, come preparazione e tutto. Alcune gare erano usate e considerate come allenamenti, oggi invece ogni corsa è un obiettivo, soprattutto per gli sponsor». Cosa va migliorato? «Per fare qualsiasi cosa, oltre alla passione, servono soldi. Servirebbero più sponsor, ma nella società di oggi è difficile trovarli, figurarsi nel ciclismo». Come la pensa sulle radioline? «Vanno usate, siamo nel 2011. Io da atleta a volte correvo senza radioline e ancora oggi credo che la spettacolarità non dipenda dagli input che arrivano dall’ammiraglia». Siamo agli inizi della stagione, com’è la sua squadra? «È costituita per metà da ragazzi giovanissimi, per l’altra metà da atleti più collaudati. Nessuno di loro ha ancora ottenuto grandissimi risultati, ma sarà un piacere lavorare con loro e farli crescere. Da noi sono passati ragazzi come Yaroslav Popovych, Maxime Monfort… Mi diverte e mi rende orgoglioso vederli maturare. Non parlo loro troppo della mia esperienza da atleta, a parte quando devo essere incisivo, in quel caso mi serve per essere convincente e persuasivo». Ottimista? «Sempre».
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