
Ai Mondiali di ciclismo in Ruanda non c’è Tom Ritchey, che ha ridisegnato le “coffee bike”, le bici per trasportare i sacchi di caffè. Non c’è Jock Boyer, che ha allestito, organizzato e lanciato la squadra corsa e le corse, a cominciare dal Tour of Rwanda. E non c’è neanche Carlo Scandola, che ha raccolto, spedito e distribuito bici, maglie, calzoncini e scarpe – volontariamente, gratuitamente - a un’infinità di ragazzi e ragazze ruandesi. Tre protagonisti fondamentali. Eppure. Ritchey e Boyer sono americani del New Jersey e Utah, Scandola veronese di Negrar. Ha 83 anni compiuti. La sua passione per il ciclismo risale agli anni Cinquanta e Sessanta, prima da praticante, poi da tifoso, infine da missionario. Perché la sua è stata proprio una missione, priva di qualsiasi riscontro economico, se non in perdita. La ricerca di materiale usato o seminuovo o ancora meglio nuovo, avanzi di collezioni, fondi di magazzino, reliquie di armadi, poi spedizioni avventurose, rischiose, si sa come sono le dogane in certi Paesi, un buon motivo per bloccare e chiedere soldi, ricavare guadagni, intascare soldi. Scandola partecipava anche al Tour of Rwanda, a proprie spese per il viaggio, a carico dell’organizzazione durante la corsa, in pensioni e mense che non sono certo gli hotel e i ristoranti che si vedono adesso in tv. Prima della partenza e dopo l’arrivo, a Kigali, era ospite di un vecchio amico emigrato in Ruanda, “nella tana del leone”, un luogo favoloso nella sua modestia e semplicità, nella sua ospitalità ed essenzialità.
Le virtù di Scandola (ne scrivo sul mio “Strade nere”, Ediciclo), oltre alla generosità, erano la capacità di farsi comprendere senza conoscere una parola di inglese ma masticando un francese idraulico alla veneta e gestuale alla napoletana; la conoscenza delle regole del gioco, non solo nel ciclismo delle grandi occasioni, ma nella vita di tutti i giorni; e l’umanità, dote che viene immediatamente riconosciuta, a diversi livelli, fra chi va là per affari, o per caso, o per curiosità, o per natura, o per sport, o per turismo, o – come lui – per passione. Aggiungerei anche che Carlo aveva un notevole spirito giornalistico, che non significa saper scrivere un pezzo, ma annusare una notizia, individuare un personaggio, seguire una traccia. Molto mi ha aiutato, Scandola, nelle corse vissute insieme e anche in altre seguite separati a distanza continentale. Mi accompagnava in orfanotrofi, scuole, mercati, mi introduceva in case, capanne, cortili, mi presentava a corridori, direttori sportivi, presidenti di giuria, mi suggeriva, mi spronava, mi costringeva. Chissà, forse qualcuno ci avrà anche definito “la strana coppia”. Ma mai nessuno avrà detto “attenti a quei due”. Lui donava bici e guanti, io regalavo interviste e ritratti.
Quella di Scandola è stata una missione. Non lo è più. Un giorno dal Ruanda gli hanno comunicato che avrebbero accettato solo biciclette e abbigliamento nuovi di fabbrica. E quel suo valoroso commercio, gratuito (se non in perdita), anonimo e umanitario, è cessato. Peccato.
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