
Per la sua ottantesima puntata la Vuelta celebra un evento: la sua prima partenza dall’Italia. Sarà Torino a ospitarla, completando un’invidiabile tripletta: dopo vari passaggi del Giro e quello del Tour un anno fa, diventa l’unica città italiana in cui hanno fatto tappa i tre grandi giri. Tre giorni e mezzo in Piemonte, con un avvio per velocisti che ha rari precedenti, poi il fugace passaggio in Francia prima di tornare in Spagna, dove la corsa si concentrerà nella metà alta del Paese. Percorso tradizionale, frazioni corte e abbondanza di salite: otto le tappe di montagna, una decina gli arrivi all’insù, una cronosquadre di 24 chilometri a Figueres al rientro in patria e una individuale di 26 il terzultimo giorno, con un paio di occasioni per i velocisti il primo e l’ultimo giorno a Madrid. Mancano grandi firme come Pogacar, Evenepoel e soprattutto Roglic, quattro vittorie in sei edizioni compresa l’ultima, mancano anche Van der Poel e Van Aert, al via ci sono Pidcock, Philipsen e Pedersen. L’Italia, assente da un decennio dall’albo d’oro (Aru, 2015), è ben rappresentata con uomini da classifica, il ritorno di Pippo Ganna e Viviani, e con Ciccone che punta all’unica maglia degli scalatori che gli manca. Ecco le dieci facce che possono arrivare a Madrid in rosso.
Jonas Vingegaard. Vince perché ha un percorso ideale per uno scalatore come lui, perché un paio di anni fa ha lasciato la corsa al fedelissimo Kuss, perché in assenza di Pogacar non si vede chi possa impensierirlo. Non vince perché anche lui al Tour ha speso tante energie e qui troverà rivali più freschi.
Joao Almeida. Vince perché va forte su ogni terreno, perché nei grandi giri ha sempre chiuso nei dieci, perché in questa stagione le corse brevi le ha vinte tutte. Non vince perché al Tour si è presentato in stato di grazia e dopo la caduta che lo ha costretto al ritiro sarà dura tornare a quel livello.
Juan Ayuso. Vince perché è la grande speranza di Spagna, perché dopo un Giro storto ha voglia di rifarsi, perché almeno una promessa deve mantenerla. Non vince perché fatica a sopportare la convivenza con i compagni che vanno forte e con Almeida il problema rischia di ripresentarsi.
Felix Gall. Vince perché ha la maturità e la consapevolezza per esser protagonista, perché è uno che in montagna tiene il passo dei più forti, perché la continuità è la sua arma migliore. Non vince perché il quinto posto nel Tour più veloce di sempre gli ha tolto energie preziose.
Antonio Tiberi. Vince perché ha un Giro da riscattare, perché sulle salite spagnole si è rivelato uomo da corse a tappe, perché l’esperienza mancante gliela darà quel fenomeno di longevità chiamato Caruso. Non vince perché i giorni in cui servirà essere esplosivi lo faranno soffrire.
Egan Bernal. Vince perché la rincorsa ai livelli più alti sembra completata, perché il percorso gli strizza l’occhio, perché alla fiducia in se stesso ora abbina una buona gamba. Non vince perché dopo l’incidente sembra aver qualcosa in meno rispetto a chi lotta per il podio.
Giulio Pellizzari. Vince perché ha il terreno per esprimersi al meglio, perché il Giro gli ha confermato di esser pronto per un grande risultato, perché a 22 anni ha faccia tosta e paura di niente. Non vince perché è al debutto e la Red Bull potrebbe chiedergli di aiutare uno dei leader della squadra.
Ben O’ Connor. Vince perché è uomo che sulle salite fa paura a tutti, perché c’è già andato vicino un anno fa, perché ha accanto una squadra tra le meglio assortite. Non vince perché sarà più controllato e perché ha sempre una giornata in cui spreca quanto di buono ha fatto.
Mikel Landa. Vince perché deve riprendersi ciò che la malasorte gli ha tolto al Giro, perché sulle montagne resta un pericolo per tutti, perché come uomo di classifica è più affidabile di molti altri. Non vince perché la regolarità è decisiva e lui una giornata storta l’ha sempre.
Matthew Riccitello. Vince perché è un talento che va forte in salita, perché a 23 anni ha già sulle gambe un paio di grandi giri, perché nelle brevi corse a tappe ha dimostrato di saper stare in alto. Non vince perché un conto è far bene nelle gare di una settimana, un altro riuscire a farlo in quelle di tre.