
Trent’anni. Gli anni che oggi Marco ha, essendo nato il 13 maggio del 1995. Trenta, come gli anni di separazione da un padre del quale ha potuto solo assaporare l’odore della pelle e la dolcezza dei primi baci. Aveva solo due mesi Marco, quando in quel terribile 18 luglio del ’95, papà Fabio perde la sua giovane vita sulle strade del Tour de France, in seguito ad una paurosa caduta lungo la discesa del Portet-d’Aspet. Un mese prima di compiere 25 anni.
Trent’anni dopo, ecco l’immagine di un ragazzo fattosi uomo, che per lungo tempo è stato una goccia d’acqua di suo papà e oggi lo ricorda nel carattere mite e gentile. Nei nostri cuori e nei nostri occhi, c’è anche l’immagine straziante di Fabio in maglia Motorola, rannicchiato in posizione fetale sulla strada. Sembra che dorma, anche se quella pozza di sangue racconta di una storia recisa sul nascere. «Per me che da sempre lo vivo nei racconti, il mio babbo è in una foto che tengo in camera. Ho due mesi, lui è seduto sul divano e mi tiene in braccio: è felice».
Marco, che rapporto ha con la bicicletta?
«Oggi posso dire di averne finalmente una. È da gennaio che ho deciso di muovermi per Forlì in bicicletta. Ho preso una vecchia bici del mio babbo, una mtb di color argento con dettagli viola e, nonostante per me sia un po’ piccina, la uso. Ecco, questo è il mio rapporto con la bicicletta».
E con lo sport?
«Nessuno, sono pigro come la mamma. Fino ai 24 anni mi limitavo ad andare in piscina e come alternativa praticavo tutti gli sport da racchetta: dal tennis al padel. Oggi anche questi li ho accantonati».
Di ciclismo nemmeno a parlarne…
«Non ne parlo, perché non ho competenze, ma ascolto. Sono uno che ascolta molto e mi piace anche. Ho due nonni, entrambi di nome Sergio, che sono sempre stati appassionati. Oggi i genitori di mamma non ci sono più, così quando vado dai nonni paterni, sono loro che mi raccontano di cose ciclistiche».
Ma sa chi è Pogacar?
«So che è un fenomeno, ma se lo vedessi non lo riconoscerei».
Squadra del cuore?
«I nonni materni, quelli di Forlì dove da sempre vivo, erano super Interisti: per farli contenti… Ma non seguo nulla».
Lei è un libero professionista, laureato in Graphic Design.
«Esattamente. Ho diversi clienti, lavoro prevalentemente con un mio caro amico (Danilo Scopece, ndr), con il quale ho fatto il percorso degli studi».
Hobby?
«Trascorrere il tempo libero con Laura, la mia compagna. Ci siamo conosciuti all’Accademia di Belle Arti e da sei anni conviviamo. Adesso siamo anche in fase di trasloco: dalla villetta di mamma Annalisa (lei vive sopra, i ragazzi sotto), passiamo ad un’altra villetta, quella dei suoi nonni. Ci allontaniamo di 900 metri».
Sa che lei ha avuto una super-mamma?
«Lo so. Quando ero piccino, mamma ha fatto di tutto per proteggermi dai dettagli della morte di babbo. Io stesso, crescendo, ho fatto un lavoro di recupero ma solo tramite VHS, che ho fatto digitalizzare e con le quali ho ricostruito la storia sportiva di babbo, ma ho sempre evitato le foto che lo ritraggono privo di vita e circolano ancora su Internet».
Quante volte ha visto l’arrivo di Barcellona?
«Tantissime volte. Mi piace un sacco rivedere quelle immagini. Sono frammenti di gioia, un pezzo di storia che mi appartiene e che sento profondamente mia. In questi anni, con calma, ho ricostruito un puzzle emotivo, fatto di racconti e immagini. Mi dicono che caratterialmente gli somiglio. Mi dicono che sono pacato, disponibile e buono come lui: ne vado orgoglioso».
Ha ancora dei legami con il mondo del ciclismo?
«Sì, tanti. Babbo ha lasciato davvero un bel ricordo di sé e in tanti ci sono ancora vicino. Armstrong inizialmente è stato molto vicino alla mamma, poi con il tempo e i suoi problemi con il doping i rapporti si sono un po’ allentati, ma per me Lance resta l’uomo che ci ha aiutato quando avevamo bisogno. Vicinissimo ci è restato anche Jim Ochowicz, il team manager della Motorola. Lui non manca di chiamare mamma con regolarità scientifica».
Cosa le è rimasto di papà: medaglie, maglie, coppe…
«Non avevo nulla, fino al compimento dei 18 anni. Quel giorno nonno Sergio, il papà del mio babbo, mi donò la medaglia olimpica di Barcellona ’92. Per anni l’ho lasciata in ogni caso a loro, ad Albese Con Cassano, ma ora ce l’ho io, visto che organizziamo la Gran Fondo a Casartelli (il 6 luglio, più di mille iscritti, ndr) e nei giorni precedenti facciamo anche una mostra, con diversi cimeli».
Cosa le ha pesato di più in questi trent’anni…
«Respirare il dolore di questa grave perdita nelle persone che io amo di più. Io non ho vissuto un vero lutto, ma un’assenza, che è la più acuta presenza».
Ama la musica?
«Non quella italiana, non Ligabue come mamma Annalisa che ne è una inguaribile fan. Io amo un po’ tutta la musica, dall’elettronica al punk».
Fiori?
«L’ortensia, il fiore preferito da Laura».
Cosa le piace di Laura?
«Tutto: con lei sto troppo bene».
È in programma il matrimonio?
«È in programma, ma prima dobbiamo sistemarci bene».
Mare o montagna?
«Vivo non lontano dal mare, ma preferisco la montagna: è più tranquilla».
Una cosa che Laura le dice quado si riferisce a suo papà.
«Ma sai che in bicicletta vai davvero piano: cosa direbbe il tuo babbo?».
Se potesse rincontrare il suo papà, cosa gli chiederebbe?
«Gli direi: babbo, giro in bici e poi aperitivo. Sa quante cose vorrei sapere da lui… ci vorrebbe una vita».