
Il recente campionato italiano élite sembra essere stata l’occasione per accorgersi che il nostro ciclismo nazionale è “nudo”. Ma la cosa ancora più grave è che se avesse vinto Ganna o Milan tutto questo putiferio di recriminazioni e denunce non sarebbe successo. E la ragione è semplice: stiamo perdendo la cultura della complessità e l’intelligenza etica di vedere le cose senza attendere che ne esplodano gli effetti peggiori. Ad esempio, serviva la vittoria di Conca per far emergere l’inedito contrasto tra FCI e Lega? Oppure, se la FCI è retta in modo inadeguato, come mai a gennaio è stata rinnovata la fiducia al presidente che l’aveva gestita nei quattro anni precedenti?
Basta questo per dire che la situazione ha radici molto più profonde. E certi commenti sarebbero molto più costruttivi se insieme alla libertà di esprimerli fossero pure accompagnati dal dovere di interrogare se stessi e quindi scoprire che cosa abbiamo fatto individualmente, con l’esempio più che con la parola, perché ciò non accadesse.
Molti commentatori, tecnici e semplici sportivi, hanno già scritto e detto sui limiti e gli errori che il recente campionato italiano ha portato alla luce, ma se mi è concesso, una riflessione vorrei aggiungere: non credo che il volontariato vada accantonato come una cosa ormai superata, non più adeguato ad affrontare le sfide del tempo e quindi l’evoluzione del ciclismo. Un sistema perdente per mentalità perdenti, se non un mondo di vecchi per vecchie idee.
Non tutti la pensano così, e meno male, ma quando leggo le ricette per avere corridori competitivi e aggiornare il ciclismo nazionale ai tempo moderni, la sintesi prevalente che riesco a cogliere è che servirebbe innanzitutto la specializzazione di tutto su tutto, con la chiosa finale che per fare questo servono soldi, tanti soldi, che tanti invocano però senza dire come recuperarli.
Sono gli effetti della cultura “verticale”: si prende il segmento che personalmente interessa e su questo si carica la ricerca, la specializzazione e la realizzazione di tutto quanto sia possibile.
E’ la cultura di chi immagina i muri e i tetti senza aver pensato dove stanno le fondamenta, una realtà metafisica sempre più frequentata da soggetti disposti solo a raccoglierne i vantaggi economici di certe prestazioni o di certe professioni, come ad esempio i procuratori, che senza alcuna responsabilità personale capitalizzano per se stessi il patrimonio umano e tecnico costruito da altri, stravolgendo a volte il normale percorso di crescita che un giovane atleta dovrebbe avere. Sono gli "stakeholder" bellezza! I “portatori di interessi”, quelli loro ovviamente.
E’ la cultura, pertanto, di chi dimentica che non esisterebbero né corridori né organizzatori se prima non esistessero le società di base, quelle che raccolgono i bambini del paese, che vanno generosamente nelle scuole, per riuscire a mettere in sella i ciclisti del domani.
Ma delle società di base non se ne parla mai o quasi da parte degli intenditori dei massimi sistemi, perché è troppo difficile ammettere la verità più semplice: una società di base nasce per volontà di qualcuno, per volontà associativa di diversi che si mettono in gioco con spirito puramente volontaristico, dove non ci si guadagna niente ma si assumono responsabilità di ogni tipo, da quelle amministrative a quelle del portare per strada i figli degli altri, con la fatica aggiunta di dover trattare con famiglie per la metà separate.
Sono gli eroi della responsabilità, quelli a cui si dovrebbe fare un monumento per tutte le domeniche spese a portare a gareggiare i ragazzi sempre più lontano perché ci sono sempre meno corse, le mezze giornate fra settimana per gli allenamenti fatti con il cuore in gola per i rischi del traffico, per le tante serate spese ad organizzare trasferte ed attività, a gestire democraticamente la società, a spremersi le meningi e a metterci la faccia (a volte quasi umiliandosi) per trovare quattro soldi di sponsorizzazione. Presidenti, autentici innaffiatori del movimento ciclistico ai quali lo statuto federale in fase di revisione possa presto attribuire maggiore dignità riconoscendo loro la facoltà del voto diretto telematico, senza più lo sfregio degli intrighi delle deleghe e dei relativi capi-delega.
Uomini e donne che si dedicano alla formazione dei giovani, che aiutano l’integrazione infantile, che si spendono perché convinti che una società può essere migliore se migliori sono i suoi cittadini. Luoghi in cui si combatte la violenza e la disparità di genere nonostante una riforma dello sport che affloscia lo sport per i suoi astrusi meccanismi, dirigenti umiliati dall’obbligo dello “Safeguarding”, della serie: non importa chi sei, importa che sei sospettabile. Una riforma dello sport che culturalmente, normativamente e strutturalmente, è contro il volontariato dei valori ancor prima che delle prestazioni.
Queste cose ormai fanno spavento, e tra gli “strateghi” del nuovo ciclismo sempre più difficile trovare chi voglia cimentarsi nella fondazione di una ASD, che voglia provare lui ad essere di esempio.
Per i gruppi sportivi che nascono unicamente per gestire corridori di una certa fascia, un certo movimento c’è ancora anche se meno di un tempo, ma nelle società di base le teste grigie prevalgono di gran lunga, e quando queste abbandonano spesso anche la società li segue.
Io sono convinto che, pur con tutto quello che serve per far vivere un movimento sportivo, sia fondamentale la promozione e quindi l’allargamento del numero dei praticanti perché è soprattutto nella quantità (senza trascurare i benefici sociali) che si hanno maggiori possibilità di potenziali campioni o professionisti di qualità, per uno sport non di élite. E’ soprattutto nella quantità che si ha maggiori possibilità di scoprire il talento. Quel talento che prima si scopre e poi lo si perfeziona, e che non può essere costruito in chi non ce l’ha. Né tanto meno coltivarlo come fosse una pianta precocemente selezionata come nel 2011 pensò di poter fare il Coni con il “Progetto talento”, miseramente fallito.
Per il nostro ciclismo, più che indicare le stelle è tempo di guardare dove stiamo mettendo i piedi, perché gl’inciampi sono ovunque, a partire dalle nostre contraddizioni.
Serve una azione politica per dare alle società di base sistemi gestionali semplificati accompagnati da una politica fiscale di forte incoraggiamento per le aziende che vogliono sponsorizzare. Di quanti sponsorizzano non per avere più vendita dei propri prodotti, bensì solo per aiutare il territorio, come sta (almeno teoricamente) nel ruolo sociale dell’impresa.
Servono adeguate tutele per chi decide di prendersi le responsabilità non per se stessi ma per la propria società e per il bene comune. Ogni scuola dovrebbe avere l’opportunità di fare ciclismo e ogni comune disporre di spazi protetti, con assessorati alla sport dediti alla sviluppo delle discipline e non soltanto alla gestione degli impianti. Serve un codice della strada e una cultura civile che tuteli il ciclismo nelle sue varie forme. La mancanza di sicurezza negli allenamenti è l’orco del proselitismo giovanile e in molte zone del Paese è difficile capire come il ciclismo possa avere un futuro.
Serve cioè ciò che l’uomo e la donna possono realizzare mettendosi a disposizione, perché lo Stato, oltre ai suoi fondamentali servizi e regole di convivenza, per lo sport e per la qualità della vita ha bisogno della partecipazione attiva dei cittadini, ha bisogno della grande forza del volontariato, così come il Terzo Settore sta a dimostrare.
Volontariato nelle sua diverse forme, da quelle elementari a quelle più professionali, come nel ciclismo possiamo mettere insieme gli accompagnatori con i tecnici più freschi di scuola o comunque tecnici ricchi di quella esperienza e saggezza indispensabile per educare alla pratica sportiva chi è ancora giovane e bambino. Chi deve crescere prima di vincere.
Darsi disponibili per fare queste cose, a partire da se stessi, significa incominciare il percorso per diventare classe dirigente. Si, classe dirigente. Quella materia di cui si parla poco pur essendo così essenziale e che la FCI dovrebbe incoraggiare in tutte le forme possibili, a partire da specifici percorsi formativi, perché senza le società di base tutto il resto diventa fuffa.
Nel nostro Paese più volte abbiamo visto scattare la solidarietà per qualcosa di grave che è accaduto o sta accadendo, e quindi il proliferare di diverse iniziative di sostegno in particolare di ordine economico.
Anche il ciclismo su strada, a mio parere, è “qualcosa che sta accadendo” come fenomeno di progressivo impoverimento, e sempre più si dovrà pensare a qualcosa di straordinario per impedire che ciò accada.
Io propongo di partire dalla cosa più semplice: chiunque ami davvero il ciclismo vada alla società ciclistica più vicina e chieda di diventare socio. Per incoraggiare i suoi dirigenti a non mollare ed aiutarli se non altro con il modesto contributo della quota tessera.
E’ poco? I vecchi contadini di una volta, per tirare avanti e far quadrare i conti, avevano una filosofia finanziaria molto semplice: “tanti pochi fanno molti”.