
Cinque giorni al Giro d'Italia 2025. In attesa di Roglic e Ayuso, Bernal e Carapaz, Ciccone e Tiberi, Van Aert e Pidcock, viviamo il conto alla rovescia nei racconti di antichi protagonisti. Oggi, -2 al pronti-via, tocca a Ennio Vanotti.
Corridori si è. E lo si è dentro, innanzitutto. Nel sangue e nella pelle, nel cuore e nella testa, nella stirpe e nella famiglia. Nonno corridore, papà corridore, fratelli corridori, e lui, Ennio Vanotti, 13 anni da professionista con 12 Giro d’Italia (più quattro Tour de France e una Vuelta di Spagna). Come si dice in gergo, e si tratta del migliore complimento che si possa rivolgere, un corridore vero.
Vanotti, che cos’era il Giro?
“Un sogno. La prima volta neanche me l’aspettavo. Era il lontano 1978, avevo 22 anni, ero neoprofessionista, correvo per la Zonca, già tanto che mi fecero fare il Giro di Romandia, mi comportai bene e così mi confermarono per il Giro. Ci andai in aiuto di Claudio Corti, che era stato campione del mondo fra i dilettanti, dello svizzero Sutter, che poi conquistò la maglia verde della montagna, in squadra c’erano corridori forti come Gavazzi, Bellini, Poggiali… Insomma, gregario”.
Compiti?
“Se avessi avuto il donno della ubiquità, avrei aiutato tutti e sarei stato perfetto. Ma dovevo concentrarmi su uno soltanto. A quel tempo era lecito attaccarsi alla maglia di un compagno. E il compagno di Pierino Gavazzi, sulle salite, ero io. Ero diventato abilissimo a sfilarmi, recuperarlo e trainarlo. Eppure, nonostante questo lavoro estenuante, di solito nelle retrovie del gruppo, nella classifica generale finale riuscii ad arrivare ventisettesimo. Correvo senza velleità se non quella di rendermi utile, ma qualche volta vidi anche la luce della corsa e la testa del gruppo”.
Una volta ha anche vinto.
“Giro d’Italia del lontano 1983. Il cronoprologo a Brescia fu annullato per uno sciopero dei metalmeccanici. Il giorno dopo la cronometro individuale fu sostituita da una cronosquadre. Correvo per la Bianchi, sempre da gregario. A 200 metri dall’arrivo passò in testa il capitano, lo svedese Tommy Prim, io ero alla sua ruota. Se avessi potuto, e se avessi voluto, lo avrei saltato e sarei arrivato primo, e avrei indossato la maglia rosa, invece mi accontentai di giungere secondo. Era l’ordine di scuderia. E lo rispettai. Sarebbe stato un bello scherzo da prete. E quante volte mi sono chiesto perché non l’ho fatto. Certo, mi avrebbero mandato – il direttore sportivo era un sergente di ferro, Giancarlo Ferretti, Feròn - da Mantova a casa in bicicletta. Ma sarei entrato nella storia: la prima maglia rosa a tornare a casa in maglia rosa. Quel giorno non solo non presi la maglia rosa, ma neanche quella ciclamino di primo nella classifica a punti perché la tappa del giorno prima non si era disputata. Comunque sono contento: in corsa non saltai un cambio, io che ero piccolino e la crono non era il mio forte, e salii sul palco e sul podio, un’esperienza e un privilegio comunque rari”.
Però sfiorò una vittoria individuale.
“Giro d’Italia del lontano 1988, la Merano-Innsbruck, correvo per la Chateau-d’Ax, fuga, nel finale dissi al mio compagno di squadra Franco Vona che ci avrei provato io, e se fossi stato ripreso, ci avrebbe provato lui. Partii io e fui ripreso, partì lui e vinse, io finii quinto. Altre volte ci arrivai vicino, altre volte non lontano. Una vittoria, comunque, me la guadagnai al Giro di Svizzera nel lontano 1979, ma per un italiano il Giro d’Italia è un’altra storia”.
La sua storia?
“Ottavo di otto, cinque maschi e tre sorelle, io ero il coccolino della famiglia. La primissima bici era quella di mio fratello Raimondo, muratore, ci feci tre corse, quella dell’oratorio del mio paese, Almenno San Salvatore, nel Bergamasco, quella dell’oratorio di un altro paese, e quella di un altro paese ancora. La prima bici era una Chiorda seminuova e truccata, un pezzo di una e un pezzo di un’altra, siccome i miei genitori non avevano i soldi per comprarmene una nuova mi arrangiai con questa procurata dall’altro mio fratello Luigi, muratore, il papà di Alessandro, poi anche lui corridore e anche lui gregario e anche lui 13 anni professionista, da Petacchi a Nibali. Fino a 19 anni lavoravo come stuccatore, il capo mi aveva concesso due mezze giornate libere per allenarmi, così la mattina lavoravo, il pomeriggio facevo 140-150 chilometri su e giù per colli, valli e montagne, c’era un mio amico che passava a prendermi e mi aiutava a pulire i ferri così guadagnavamo un bel quarto d’ora”.
Sarà al Giro d’Italia?
“A regola sì, stavolta sul Mortirolo, il punto più vicino a casa. Non resisto al richiamo del Giro. Da solo o con gli amici, a piedi o in bici, in macchina o in pullman. E ogni volta, a vedere chi in bici soffre, mi viene la pelle d’oca. Non è nostalgia: nei miei anni ce l’ho messa tutta e tutto ho dato, e l’amicizia di capitani e colleghi mi ripaga completamente”.
Organizzava la cronosquadre a Casazza.
“Per 17 anni. L’ultima volta due anni fa, alla grande, 126 ex professionisti, 700 partecipanti in tutto, chi ci dava dentro con le ruote lenticolari per arrivare primo, chi – come Bruno Zanoni, maglia nera nel Giro d’Italia del lontano 1979, e in maglia nera tutti i suoi compagni – si fermava a un bar di Endine, si sedeva a un tavolino e ordinava cappuccino e brioche per arrivare ultimo”.
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