
Cinque giorni al Giro d'Italia 2025. In attesa di Roglic e Ayuso, Bernal e Carapaz, Ciccone e Tiberi, Van Aert e Pidcock, viviamo il conto alla rovescia nei racconti di antichi protagonisti. Oggi, -3 al pronti-via, tocca a Gigi Sgarbozza.
Corridori si rimane. E’ il caso di Gigi Sgarbozza. Corridore da corridore, corridore da opinionista, corridore anche adesso davanti alla tv o con un telefono. Ottant’anni, cinque-sei da professionista, una tappa vinta al Giro e una alla Vuelta, tre giorni in maglia rossa di primo nella classifica generale della Vuelta. E molto altro. Come dice lui, “una storia vera”.
Sgarbozza, cominciò per vocazione o imitazione?
“Per fame. Una povertà che si tagliava a fette. Mio padre di Pordenone, negli anni Quaranta emigrò a Roma, colono in via Salaria, terreni da curare a Ladispoli, specialità carciofi. Mia madre di Amaseno, in Ciociaria, avanti e indietro a Ladispoli in giornata, si conobbero così. Poi Giancarlo e io, lui due anni più di me, poca scuola e subito lavoro, lui falegname e io fabbro, insieme in bici – due catorci con il portapacchi davanti e dietro – a vendere gomma che mio padre ricavava dai battistrada di pneumatici togliendone la carcassa. Era lui, Giancarlo, il vero corridore. Invece la vita fu crudele e ce lo strappò, fulminato in un temporale alle porte del paese. Era il 1957. E allora si sfasciò tutto. I miei genitori dal dolore morirono di crepacuore. Io andai a vivere a Roma, prima da una zia a Cinecittà, poi, quando cominciai a correre, in una camera affittata a Porta Latina”.
Il 1968 fu la rivoluzione anche per lei, vero?
“Giro d’Italia, quattordicesima tappa, la Vittorio Veneto-Marina Romea, 17 uomini in fuga, nessuno di classifica, c’ero anch’io con un compagno di squadra, Guido Neri. Eravamo pienamente d’accordo: lui non aiutava me e io non aiutavo lui, ognuno libero di fare la propria corsa. Battezzai l’uomo da battere, il francese Grosskost, mi incollai alla sua ruota, ma era la ruota sbagliata, ai 400 metri dal traguardo lui era penultimo e io ultimo, così cominciai a rimontare e non smisi finché vinsi. E con i soldi guadagnati al Giro m’indebitai per comprare casa a Grottaferrata”.
Era un’epoca di grandi velocisti?
“Il più forte era Merckx, il più veloce Sercu, il più esplosivo, ma anche il più bandito, Basso, il più potente Zandegù, il più scaltro Reybrouck… Io ero abbastanza sveglio, diciamo anche intelligente, tant’è che collezionai un sacco di piazzamenti. Secondo, terzo, quarto, quinto, sesto…”.
Per esempio?
“Giro d’Italia del 1969, settima tappa, la Viterbo-Terracina, la volata finì al fotofinish, primo Merckx, secondo Reybrouck, terzo io per 30 centimetri dopo più di 200 chilometri. Se avessi vinto, sarebbe stata la svolta. Ogni tanto qualcuno mi spedisce il filmato della volata sul telefonino. Me lo riguardo e me lo godo”.
Era libero o gregario?
“Libero, libero di provare e sbagliare e riprovare anche a costo di risbagliare. Solo nel 1970, alla Dreher, il direttore sportivo Cribiori mi spiegò che al Giro d’Italia dovevo tirare la volata a Sercu e che in tutte le altre corse sarei stato capitano. Ma io non sapevo fare né il gregario né il capitano, e alla fine del 1971 smisi di correre. Avevo 27 anni. Ma se il ciclismo fosse stato come quello di oggi, forse avrei continuato”.
Perché?
“In salita i capitani si attaccavano ai gregari o si facevano spingere dagli spettatori, per convincerli Taccone urlava ‘mi si è rotto il cambio’, c’era chi i primi 100-150 chilometri riusciva a farli senza quasi pedalare, e i giudici chiudevano un occhio, anche due. Il ciclismo vero è quello di oggi, battaglia dal primo all’ultimo chilometro, giochi di squadre, forza e intelligenza, strategia e tecnologia, uno spettacolo”.
Cadute? Cotte? Abbandoni?
“Cadute tante, ma mai una frattura. Cotte rare, sulle salite fino ai mille metri tenevo duro, su quelle lunghe mollavo subito, entravo nel gruppetto e giungevo a mezz’ora dal primo. Abbandoni mai, e mai arrivato fuori tempo massimo”.
La sua amicizia con Sergio Zavoli?
“Risale a quando lui aveva smesso di condurre il ‘Processo alla Tappa’ e io avevo già smesso di correre. Lui aveva una villa a Monte Porzio Catone, che sta attaccato a Grottaferrata. Devi venire a trovarmi, mi diceva. E così ogni lunedì mattina andavo da lui e per un paio d’ore si chiacchierava, di ciclismo e calcio, di Giro d’Italia e Serie A, di Merckx e della sua Roma. La sua amicizia mi onorava. Voleva sapere quello che si faceva, quello si diceva, quello che si pensava. Le voci della gente, la voce del popolo”.
Una bella soddisfazione.
“Ne ho avute anche altre. Alessandra De Stefano che mi chiamò per essere ospite fisso al ‘Processo alla Tappa’, a volermi con lui era stato Merckx. Le mie due figlie, una storica dell’arte, l’altra superlaureata, insegnante in licei e direttrice alla Feltrinelli. E le mie tre nipoti, tutte prime della classe. In questo, sia chiaro, nulla hanno preso rispettivamente dal padre e dal nonno”.
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