
Cinque giorni al Giro d'Italia 2025. In attesa di Roglic e Ayuso, Bernal e Carapaz, Ciccone e Tiberi, Van Aert e Pidcock, viviamo il conto alla rovescia nei racconti di antichi protagonisti. Oggi, -5 al pronti-via, tocca a Italo Zilioli.
Signori si pedala. Chiedetelo ai corridori di una volta, capitani e gregari, chiedetelo agli sportivi di sempre, da strada o da tv, chiedetelo alla strada e chiedetelo anche alla polvere. E tutti, strada e polvere compresi, vi confermeranno che Italo Zilioli è un signore, lo era a pedali, lo è a piedi, lo era in bicicletta, lo è con la fisarmonica o semplicemente a ricordi, ragionamenti e racconti. Al Giro d’Italia cinque vittorie di tappe, tre volte secondo, una volta terzo, una volta quarto e una volta quinto nella classifica finale.
Zilioli, la volta più forte?
“Giro del 1970, la tappa da Terracina a Rivisondoli, andai via dal gruppetto di testa con un’accelerazione a Roccaraso, tenni il ritmo e mantenni il vantaggio in pianura, poi l’arrivo in salita, 13 secondi prima di Bitossi, 26 prima degli altri inseguitori, con Merckx e Gimondi. Ma sì, dai, un bel numero”.
Dagli anni di Anquetil a quelli di Merckx.
“Due fuoriclasse, uno più dell’altro. Anquetil era imbattibile, Merckx di più, finché il tempo non cominciò a scalfirli. Io cercavo di barcamenarmi, poca strategia, molto istinto. Tre secondi posti, e gli altri piazzamenti, potrebbero sembrare quasi come un maleficio o una maledizione e pesare come un rimpianto o addirittura un’ossessione. La verità è che probabilmente non ero un corridore da grandi giri, ma da piccoli giri, tant’è che quelli che duravano una settimana, come la Tirreno-Adriatico o la Setmana Catalana, riuscii a vincerli”.
Se tornasse indietro?
“Ma se tornassi indietro, con la testa di adesso, rifarei esattamente le stesse cose che scelsi di fare e che feci allora, e quindi collezionerei secondi posti e piazzamenti. Facevo quello che potevo, dando tutto quello che avevo dentro, il mio massimo. Correvo per avere la coscienza a posto, e ce l’ho. La verità è che ci sarebbe voluta un’altra mentalità. Io ero fatto così, io ero quello lì”.
Un capitano?
“Mai. Non lo ero, non lo facevo, neanche mi sentivo. Sentivo di avere qualcosa in più in salita, e lì cercavo di lasciarli là, dietro di me. Ma non domandavo, non pretendevo, non esigevo. Non ero neanche un mezzo capitano, negli anni ho corso con Balmamion, Gimondi, Bitossi, Gosta Pettersson, Merckx… I veri capitani erano Gimondi e Moser, che con i gregari – si fa per dire - usavano la frusta. Neanche Merckx lo era: i primi anni era così forte che faceva tutto da solo, solo gli ultimi anni fu quasi costretto a pianificare il lavoro dei compagni per fronteggiare avversari più giovani e agguerriti”.
Merckx vi insegnava a perdere?
“Gli altri impararono a felicitarsi di un secondo posto come se fosse un primo, godere di un gradino qualsiasi del podio come se fosse quello più alto. Invece a me Eddy insegnò a vincere. Un anno, il 1970, insieme in squadra. E in camera. Un Giro, una mattina, un albergo, dalle parti di Riva del Garda, niente cinque stelle e altro come oggi, anche le due stelle ci sembravano un lusso. Dopo la colazione, prima della partenza. Eddy s’infilò i pantaloncini, sistemandoli, poi la maglia, facendola aderire ai polmoni e ai fianchi, quindi i calzini, stirando le pieghe, infine si guardò allo specchio su un’anta dell’armadio, ordinò ‘Italo, andiamo!’ e sferrò un pugno sul comò. Ero esterrefatto. Avevo assistito alla vestizione non di un corridore, per quanto campione, ma di un guerriero. Quelli non erano pantaloncini, maglietta e calzini, ma armatura, lancia e scudo. O forse, o anche, paramenti sacri prima della messa cantata di mezzanotte a San Pietro”.
Lei, nel 1970, vinse una decina di corse.
“Non fu un caso. Gli altri corridori cercano e trovano forze ed energie dentro di sé, io forse ne avevo poche e dovevo cercarle e trovarle fuori di me e dentro gli altri. Eddy riusciva a trasmettermele. Mi contagiava. E trovavo quella sicurezza che mi mancava. E trovavo quella autorità che non esibivo. Avrei avuto a mia disposizione anche dei gregari, ma solo una volta ne invocai l’aiuto. Tirreno-Adriatico del 1975, la Frascati-Monte Livata, fuga a tre, Panizza, Perletto e io. Io e Perletto della Magniflex, così Panizza non tirava un metro, faceva il suo gioco, anche se rischiavamo di farci raggiungere. Ai -3 dall’arrivo chiesi a Perletto di tirare un po’ anche per me, così avrei preso fiato per la volata. Lo fece, io vinsi, la mia ultima vittoria, e di questo, da quel giorno, gliene sono profondamente grato”.
Più le spinte date o ricevute?
“Quelle ricevute, anche se mai chieste. Date, una sola, ma bisogna esserne capaci, e io non lo dimostrai. Giro del Canada, nel 1972, volatona, roba da corsari, da pirati, non c’erano i controlli di oggi, certi cambi all’americana sembravano silenziosamente autorizzati. Ne azzardai uno al mio compagno di squadra belga Reybrouck, e per poco non lo feci deragliare. Con la beffa che io fui visto, retrocesso e penalizzato, e lui pure. Per fortuna che avrebbe vinto un’altra tappa, nella quale non tentai neanche minimamente di aiutarlo, cioè danneggiarlo”.
Il cambio all’americana è una specialità da seigiornista.
“Ne corsi una sola, anzi, mezza. A Milano, nel 1966. Fui ingaggiato e, lusingato, incuriosito e anche impaurito, partecipai. Ero stato accoppiato al grande, grandissimo Rik Van Steenbergen. Lui è il Maestro, mi dicevano. Lui ti insegnerà, mi tranquillizzavano. Per familiarizzare con la pista nel velodromo al palazzo di piazza VI Febbraio andai tre o quattro giorni prima dell’inizio della Sei Giorni. Il parquet, le curve, soprattutto la bicicletta senza freni. Van Steenbergen arrivò solo qualche ora prima dello sparo d’inizio. Altro che insegnamenti: bonjour, bonsoir, e via. Neanche il tempo di fare la gamba, saltò qualche lampadina, i vetri si frantumarono sulla pista, forai, mi terrorizzai, estrassi i piedi dai pedali e prima di fermarmi ci misi due giri. Resistetti due o tre giorni, poi fui neutralizzato. La verità è che gli altri corridori mi sembravano tutti eccitati, gasati, su di giri, io invece correvo al risparmio pensando alla stagione su strada, insomma, ero del tutto inadatto. Gli altri dormivano nei camerini in pista, io avevo ricevuto il permesso di recarmi in un albergo con Carbunin, Gerolamo Craviotto, massaggiatore del Genoa e di Coppi e altri ciclisti infinitamente inferiori come me. Ma anche in albergo non chiudevo occhio, un po’ per la mia solita insonnia, un po’ per le preoccupazioni della corsa. Spegnevo la luce, poi la riaccendevo e, già che c’ero, lavavo i miei indumenti. E Carbunin mi osservava, prima incredulo, poi rassegnato”.
Questo Giro?
“Sono in partenza per l’Albania, invitato da amici albanesi, miei vicini di casa. Meglio di così non si può”.