Vedi alla voce A come Amicizia. Ma anche alla voce R come Riconoscenza, alla voce S come Stima… C’è tutto un alfabeto sentimentale nelle parole che Giuseppe Saronni dedica a Roberto Ceruti, il quale le ha lette ieri, nel giorno del suo settantesimo compleanno. Una sorpresa avvolta in carta di giornale come una volta si faceva con le cose semplici e genuine, ma di qualità. Perché di assoluta qualità sportiva e umana è stato, ed è tuttora, il sodalizio fra il campione e il suo gregario. Parola, quest’ultima, sulla quale ci si deve subito intendere: Roberto l’ha portata in sella con sé per anni con quell’impasto di umiltà e orgoglio che plasma lo sportivo di rango, ne ha fatto la sua bandiera con una fierezza che l’ha nobilitata, l’ha resa sinonimo di uomo di fiducia, di amico, di punto di riferimento.
Con lo spirito di chi nel bailamme della corsa ha tenuto l’ago della bussola puntato sulla vittoria, e poi guardando il suo capitano sul podio è consapevole di avercelo un po’ (un bel po’) trainato lui lassù in cima a farsi timbrare dal rossetto delle miss, di avergliela infilata un po’ (un bel po’) anche lui quella maglia rosa o iridata, anche se non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura. E quella parola la spendiamo nello stesso spirito, guardando anche con un po’ di inevitabile nostalgia allo sport, al ciclismo com’erano in quegli anni che non si dimenticano. E dalle parole del campione traboccano tanti ricordi, tante sensazioni che ci vorrebbe l’Adriano De Zan dei bei tempi per metterle in fila come quando snocciolava in diretta l’ordine d’arrivo di una volatona di gruppo.
Saronni, se dico Roberto Ceruti qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Non una sola, se ne affollano tante, tutte insieme. Ne abbiamo passate troppe, in tanti anni, condividendo gioie, risultati belli e anche meno belli, giornate felici e giornate amare. Fra l’altro siamo stati praticamente sempre compagni di camera negli alberghi dove ci portava la nostra vita nomade, è stato quasi naturale che Roberto diventasse il mio compagno più fidato. È con gioia che parlo di lui. Mamma mia quante cose ci hanno legato, in tutti quegli anni».
Per la cronaca dal 1980 quando si trovarono alla Gis Gelati, al 1987 alla Del Tongo-Colnago. Ma l’intesa è scattata subito, o per gradi?
«Ci siamo annusati subito, per certi versi abbiamo caratteri simili, io in quegli anni non ero molto espansivo, e lui è sempre stato un ragazzo riservatissimo, di quelli che parlano solo quando ne vale la pena, quando hanno cose importanti da dire. Poi col tempo l’intesa è migliorata ancora, e di parole c’è stato sempre meno bisogno, a un certo punto a lui bastava guardarmi in faccia per capire come stavo e che cosa mi frullava in testa».
Mi sembra di capire che il ruolo di Roberto non si esaurisse nelle ore passate a sgobbare in sella.
«Il nostro non era il ciclismo di oggi, allora le squadre erano fatte solo di tredici, quattordici corridori, non erano numerose come adesso. C’era bisogno di tutti, di un’amicizia che cementasse i rapporti, di un fattore umano che adesso temo si sia perso per strada. Certo quello che doveva vincere era il leader, ma senza la squadra non si combinava niente. E la squadra si nutriva anche dei rapporti personali e famigliari, c’era spazio per l’amicizia, si andava oltre l’aspetto sportivo».
Nel rapporto fra voi due, si è giovato più il capitano di avere un simile alleato, o il gregario di vivere all’ombra del campione?
«Io posso parlare per me, e dico che essermi potuto avvalere dell’aiuto anzitutto di Roberto, e anche degli altri compagni, è stato prezioso. Bisogna ricordare che Ceruti da dilettante era stato un vincente, quando è passato professionista aveva grandi potenzialità e avrebbe anche potuto giocarsi la carta di mettersi... in proprio. Secondo me ha dato prova di grande intelligenza e lucidità nello scegliersi un ruolo diverso, io non lo chiamo gregario, lo definisco corridore di grande capacità che si mette a disposizione di un altro. Probabilmente una scelta non facile all’inizio, dopo essersi messo in luce nei dilettanti, ma che si è rivelata importante. Credo anche per lui, ma di sicuro per me…».
In quali frangenti il ruolo di Ceruti dimostrava il proprio valore?
«In gara a volte la pressione mi portava a essere nervoso e impulsivo, a vedere la corsa in modo non del tutto lucido e a essere tentato da scelte sbagliate. In casi del genere Roberto è stato spesso decisivo. Oggi i corridori sono… radiocomandati dalle ammiraglie, allora la comunicazione diretta con i direttori sportivi non esisteva, si concordava a tavolino una tattica di massima ma, davanti a situazioni impreviste, toccava ai ciclisti decidere cosa fare. Lui sapeva vedere la corsa con maggiore chiarezza, e aveva la capacità incredibile di farmi ragionare: mi faceva parlare, mi lasciava sfogare, e poi... mi sembra di sentirlo ancora adesso. ‘Giusèpp – mi diceva con la flemma che non perdeva nemmeno nei momenti più frenetici – non sarebbe meglio…’. Quasi sempre mi toccava dargli ragione, e tantissime volte ho cambiato strategia, dandogli retta. È stato l’impagabile suggeritore di tante mie vittorie».
Però qualche volta avrete avuto divergenze.
«Qualche battuta un po’ stizzosa ogni tanto ci scappava, ma finiva lì, passato il momento di irritazione finivo per capire che il suggerimento era valido. E a volte gli bastava guardarmi negli occhi per capire che cosa volevo dai compagni, che cosa mi aspettavo dalla squadra».
E nel celebre treno-Del Tongo, quello che negli arrivi affollati imponeva un ritmo altissimo anche per proteggere lei dalle frequenti e pericolose cadute, e poi la pilotava al traguardo proiettandola verso la vittoria, quale ruolo aveva Roberto?
«Essendo anche piuttosto veloce, contendeva il ruolo di ultimo uomo a Fraccaro e Van Calster, ha sempre avuto un ruolo importante. Come anche nelle crono a squadre, di quelle ne abbiamo vinte parecchie, soprattutto quando è arrivato Piasecki. Il polacco era un cronoman formidabile, quando tirava lui nessuno di noi voleva stargli a ruota perché imponeva accelerazioni massacranti, e naturalmente Roberto si sacrificava per tutti. Lui era così, dove lo mettevi ci stava. Alla grande».
Ricorda un episodio in cui la vostra intesa ha raggiunto l’apice?
«Un momento bello e importante, il Mondiale che ho vinto a Goodwood nell’ottantadue. Venivamo da un periodo avvelenato dalle polemiche, l’anno prima a Praga si era perso male (Saronni bruciato da Freddy Maertens in una volata condotta in modo suicida dalla squadra, ndr); lì invece fu tutto perfetto, Roberto teneva i contatti con il commissario tecnico Alfredo Martini e la corsa non sarebbe venuta meglio se avesse seguito la sceneggiatura di un film. Poi i festeggiamenti, le interviste, una sarabanda ubriacante che sembrava non finire mai. Poi finalmente torno in albergo, nella camera che come sempre condividevo con Roberto. Lui è già lì, seduto in poltrona, nella penombra, quasi al buio. Io mi corico sul letto, per venti minuti nessuno dei due dice una parola. Ma sapevamo entrambi che cosa avevamo fatto, e lo abbiamo assaporato insieme, in perfetto silenzio perché non c’era bisogno di dire niente. Forse è stato quello il momento di massima condivisione fra noi, in un silenzio che diceva tutto».
La migliore qualità tecnica di Roberto, e quella umana?
«Andava forte dappertutto, pianura o salita lui c’era sempre. Sanremo, Lombardia, Giro, tante volte mi ha anche un po’ aspettato per farmi superare i momenti difficili. Un gran corridore, me lo invidiavano tutti, lui non me lo ha mai detto ma io so che tante squadre gli avrebbero fatto ponti d’oro pur di portarmelo via, però lui è rimasto. Sul piano umano, l’onestà e la correttezza fatte persona. In tanti anni in questo ambiente ho imparato una cosa, chi era onesto e corretto da corridore lo è rimasto nella vita dopo la fine della carriera, gli altri col tempo sono peggiorati…».
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, si capisce. Però Ceruti ce l’avrà almeno un difetto…
«Devo pensarci, faccio fatica a trovarlo, io ne ho tanti, lui nemmeno uno… Ecco, non un difetto, ma una cosa che gli ho sempre rimproverato: avrei voluto averlo con me anche negli anni finali della carriera, quelli meno generosi di successi, invece si è ritirato, mi ha abbandonato troppo presto. Ma in fondo anche questo fa parte della sua indole, della sua onestà di fondo, con la reputazione che si era costruito avrebbe potuto lucrare qualche ingaggio in più allungandosi la carriera, vivere un po’ di rendita, invece quando non ha più sentito dentro di sé lo stesso entusiasmo ha detto basta. Ecco, se la troppa onestà è un difetto lui ce l’ha».
Vi vedete ancora, anche in sella.
«Ci troviamo spesso anche con le famiglie. Inoltre è venuto alla recente Pedala con Giuseppe Saronni, la giornata ciclistica che organizzo da un paio d’anni a Cittiglio, una pedalata a velocità controllata da cui l’agonismo è bandito. Poi ogni tanto ci ritroviamo fra amici per uscire in compagnia, e allora la musica è diversa, chi ha più birra non si fa scrupolo di farlo pesare. Ecco, in quelle occasioni mi viene il dubbio che Roberto si vendichi di tutta la fatica che gli ho fatto fare, perché essendo sempre in forma smagliante spesso mi stacca senza pietà. Non ha più il rispetto di una volta…».
da La Provincia di Cremona a firma di Giovanni Ratti