STORIA | 08/05/2018 | 07:16 Non so se avete mai conosciuto qualcuno a cui hanno dedicato una piazza. Io sì, almeno due: uno è Miguel Indurain, e per fortuna è ancora fra noi, l’altro è Candido Cannavò, e un po’ mi imbarazza parlarne visto che non è mai stato il mio direttore. Anzi. Eravamo rivali, io che lavoravo al Corriere dello Sport-Stadio e lui che era la Gazzetta dello Sport. Lo vedevo alle partenze, o sotto il podio (diciamola tutta: io sotto, e pure un po’ defilata per non prendermi gli schizzi di spumante perché al Giro non c’è verso di cambiarsi fino a sera, e lui spesso sopra il podio, a dire a tutti cosa dovevano fare), o quando passava rapido in sala stampa per raggiungere quella separata dedicata ai giornalisti della Gazzetta (un apartheid che non ho mai capito, tanto vale che ve lo dica). Ci salutavamo appena, poco più di un cenno, poco meno di un sorriso. Ma io sapevo, e lui sapeva. Era successo una mattina presto, non riesco a ricordarmi dove ma so che c’era il mare.
Era il primo Giro d’Italia, anno 1998, per tutti il Giro di Pantani, per me ancora oggi il Giro di Bartoli ma questa è un’altra storia e magari ve la racconterò. Ero piombata al Giro per caso (o almeno così credevo), e il mio collega Pietro Cabras si era trovato di punto in bianco a dover dividere la macchina, il lavoro e le giornate con una quasi sconosciuta. Oltre che con Lint, il nostro autista (allora i giornalisti non guidavano la macchina durante i grandi giri, e questo è ancora un altro discorso). Le tappe a quell’epoca cominciavano prima, e se volevi ritagliarti un po’ di tempo per te dovevi alzarti all’alba per uscire a correre, a passeggiare o a fare una nuotata.
All’inizio del Giro non è difficile, ma se andate a vedere nella terza settimana l’orario della colazione si sposta sempre più in là, e qualcuno per guadagnare una mezzora di sonno rinuncia anche a pasta e cappuccino. Comunque, quella volta eravamo ancora all’inizio del Giro, e una mattina sgusciai fuori per andare a camminare sulla spiaggia davanti all’albergo. Dopo mezzora mi misi a sedere sulla sabbia a prendere un po’ di sole. Ero lì da qualche minuto e sentii una voce inconfondibile. «Ti piace vero?».
Cannavò non parlava del sole, e neanche del mare. Parlava del Giro, ne parlava come se fosse suo figlio, qualcuno di famiglia, qualcuno che aveva visto nascere, qualcuno a cui aveva insegnato a camminare. Si mise a sedere di fianco a me, per terra, e parlammo a lungo. Oddio: lui parlò, io ogni tanto facevo sì con la testa. Mi raccontò tutto quanto, di quando era un bambino a Catania, dell’Etna e del mare, della sua mamma sarta che una volta era andata ad aggiornarsi a Parigi. Della prima volta che era entrato in una redazione, di quando aveva cominciato a scrivere, di un direttore che gli metteva soggezione. Di quando aveva sentito per la prima volta parlare del Giro d’Italia, di sua moglie ballerina e di come l’aveva conosciuta, dei corridori e di com’erano cambiati negli anni, mi raccontò come si era sentito Bartali quando era morto Coppi, era sicuro di saperlo, e mi spiegò come si dovrebbe sentire un giornalista quando ha davanti un Giro da raccontare. «Siamo fortunati. E abbiamo una grande responsabilità. Scrivi sempre quello che provi, quello che vedi, anche quello che immagini. La gente capirà».
Oggi il Giro d’Italia parte da Catania, e il mio pensiero va a quel direttore del giornale rivale che una mattina lontana spese un’ora del suo tempo per attrarre una ragazza che neanche conosceva in quella rete rosa e sdolcinata che è il Giro per la Gazzetta. C’è riuscito, e io ci sono cascata. Vent’anni dopo a Catania c’è una piazza che si chiama come quel direttore che aveva il Giro nel cuore.
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