PROFESSIONISTI | 07/04/2018 | 07:17 Regina delle classiche o Inferno del
Nord che dir si voglia, cambia poco: la Parigi-Roubaix resta una delle
corse più dure ed eroiche, l’ultima frontiera di un ciclismo antico e
non solo perché le sue origini risalgono alla fine dell’Ottocento. Da
Compiegne, città in cui fu catturata Giovanna d’Arco e in cui i francesi
firmarono poi un’armistizio con la Germania di Hitler, al velodromo
della città del carbone, a due passi dal confine col Belgio, non è certo
la distanza a spaventare (257 chilometri), ma quella fetta di percorso
(54 chilometri e mezzo, un quinto) lastricata di pietre irregolari che,
per quanto frazionata in 29 settori, ne rappresenta il vero esame. E’ un
mix di fascino e fatica che quasi sempre aggiunge un tocco di epica,
perché il sole aggiunge la polvere, mentre la pioggia trasforma queste
carraie considerate monumenti nazionali e come tali aperte solo nel
giorno della corsa, in un viaggio nella sofferenza, nel dolore, nel
caos. Un vero e proprio inferno, insomma. Degno di atleti con una fibra
speciale: ecco quindici facce che nella prima domenica dopo Pasqua
possono alzare un trofeo unico.
Greg Van Avermaet. Vince perché è
una delle corse che sente più sue, perché sa correre all’attacco,
perché un anno fa ha provato l’ebbrezza di salire in cima al podio. E’
un altro che ancora non ha lasciato il segno in primavera, ma in ogni
corsa è migliorato: se abbastanza per vincere, ha solo da dimostrarlo. Niki
Terpstra. Vince perché sa come si fa, perché ha appena dato una lezione
a tutti al giro delle Fiandre, perché sulle pietre gli è più facile
pedalare che sull’asfalto. E’ tirato al punto giusto, deve riscattare
due passaggi a vuoto sui sassi francesi per via della sfortuna: a
motivazioni, sta benone. Peter Sagan. Vince perché non c’è
classica inadatta a lui, perché è una prova che gli piace, perché non
può permettersi di chiudere la campagna del Nord con ‘solo’ la
Gand-Wevelgem. A Sanremo gli è scappato Nibali, al Fiandre Terpstra: gli
basteranno questi indizi per provare di esser sveglio.
Philippe
Gilbert. Vince perché è un fuoriclasse, perché fin qui ha messo la sua
forma a disposizione della squadra, perché a 35 anni si è messo in testa
di inseguire le classicone che gli mancano. Torna sulle pietre francesi
dopo undici stagioni, nelle quali ha vinto tutto: l’esperienza è l’arma
in più.
Zdenek Stybar. Vince perché è la corsa che più si
avvicina a un ex crossista, perché anche quando si spreme per gli altri
fa classifica, perché in cinque edizioni ha chiuso quattro volte nei
primi sei. Sta bene, benone, benissimo: se Gilbert o Terpstra dovessero
smarrirsi, è pronto.
Mads Pedersen. Vince perché è fatto per
queste gare, perchè ha già vinto questa prova da dilettante, perché non
si chiude al secondo posto il Fiandre se non hai qualcosa di speciale.
Nella Trek che cerca il miglior Degenkolb è già una certezza: a 22 anni
in giro come lui ce ne sono pochi.
Gianni Moscon. Vince perché
questa è la classica che gli adatta meglio, perché al secondo anno che
l’ha corsa è entrato nei cinque, perché il salto di qualità è davvero a
un passo. Stavolta non ci sono muri, ma soltanto pietre: non sarà
l’occasione della vita, è comunque una bella occasione.
Wout Van
Aert. Vince perché è un predestinato, perché non c’è corsa dura che lo
spaventi, perché ha dimostrato che alla forza del cross può abbinare la
durata dello sforzo su strada. E’ già la rivelazione della stagione:
dovesse centrare un risultatone alla Rubè, si consacrerebbe stella a 23
anni.
Sebastian Langeveld. Vince perché è un altro cresciuto a
pane e sassi, perché è l’undicesima volta che sfida il Nord più
infernale, perché è un gregario che diventa titolare quando passa su
queste strade. Al Fiandre, scappando con altri due nel finale, ha fatto
le prove generali: meglio non trascurarlo.
Alexander Kristoff.
Vince perché ha il fisico per farlo, perché fin qui ha raccolto un
quarto posto alla Sanremo, perché deve dare un po’ di luce ad una
squadra fin qui anonima. Al Fiandre, uscendo da una cura di antibiotici,
è rimasto davanti fino alla fine: se è guarito del tutto, può far male.
Matteo Trentin. Vince perché non molla mai, perché la Rubè da
leader non l’ha mai affrontata, perché un italiano non vince dal secolo
scorso (Tafi, 1999) e prima o poi succederà di nuovo. Penalizzato
dall’incidente di inizio anno, gli manca un centesimo per fare un euro:
magari lo trova fra i sassi.
Sep Vanmarcke. Vince perché ci è
andato vicino almeno tre volte, perché è di quelli che sulle pietre non
tradiscono mai, perché il meglio della sua stagione è concentrato in
questo mese. Altro corridore del genere ‘nelle corse dure c’è sempre’:
dovesse scapparci il massimo, non sorprenderebbe.
Mathew Hayman.
Vince perché è quello che ne ha corse più di tutti (16 con questa),
perché è portato per il pavé, perché quando l’hanno snobbato li ha
lasciati tutti di sasso. E’ il nonno anche per età (la prossima
settimana sono 40): alla Rubè, l’età non è un difetto, ma un pregio.
Arnaud
Demare. Vince perché è un mese che va forte, perché è l’ultima
occasione per fare un grande risultato, perché i francesi aspettano da
ventun anni di vincere la loro classica. E’ sempre lì, in agguato, nelle
fasi che contano: il giorno che gli fila tutto liscio, per gli altri
sono dolori.
Heinrich Haussler. Vince perché sta facendo una
bella campagna del Nord, perché non lo considera nessuno, perché gli
australiani sono bravi a fare i guastafeste sulle pietre. Se uno è bravo
a far da spalla a Nibali al Fiandre, significa che vale più di un
ottimo gregario: ecco il terreno dove confermarlo.
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