STORIA | 24/02/2018 | 07:08 Chiede tempo, per sé e la sua famiglia. Tempo per pensare, trovare le parole, assimilare un dolore troppo grande per essere raccontato con leggerezza. «Sai che è difficile per me trovare le parole giuste – mi dice Marco, 40 anni, fratello maggiore di Michele Scarponi, morto travolto da un furgoncino la mattina del 22 aprile scorso quando era in sella alla propria bicicletta -. È difficile riprendere il cammino, trovare un po’ di equilibrio. In questi mesi abbiamo cercato di porci dei limiti. Se fosse stato per la gente che ci ha contattato avremmo già dovuto fare film, libri e documentari su Michele. Ma non è il momento, non siamo pronti, per noi non è facile. Anche il sindaco di Filottrano voleva erigere in piazza un monumento in ricordo di Michele, ma non è il caso, dobbiamo pensare ad Anna (la moglie di Michele, ndr), e soprattutto ai due bimbi, Giacomo e Tommaso, che in quella piazza ci vanno a giocare. Un giorno, chissà, forse… abbiamo bisogno di tempo».
Tempo per capire e trovare le forze, che dopo mesi spesi ad andare in giro per l’Italia, cominciano a mancare. «È forse il momento più duro da quando siamo stati colpiti da questa tragedia. All’inizio si andava avanti come automi, adesso sentiamo il peso di un’assenza che pesa. Che non è facile da accettare. Ci vuole tempo».
Marco sembra un marinaio di ritorno da mesi di navigazione. Barba da nostromo, occhi veloci e scaltri, sorriso amaro. «Quella che ci ha lasciato Michele è un’eredità pesante e pensante, per questa ragione abbiamo il dovere di fare qualcosa di bello per ricordare lui e quanti come lui che hanno perso la vita nelle sue stesse circostanze - mi spiega con gli occhi lucidi e un sorriso struggente poco dopo aver ritirato a Milano il Premio Gianni Brera alla memoria di suo fratello -. Vogliamo girare questo premio all’Associazione nazionale dei familiari delle vittime sulla strada - ha detto quel giorno sul palco del Dal Verme con al proprio fianco Silvia, la sorella più piccola -. Gli scontri sulla strada non sono frutto del destino. Sono un massacro dettato da scelte pubbliche e private sbagliate. Per noi è diventato normale morire in strada, ma non c’è nulla di normale. Questo è un Paese che non sa dare un abbraccio ai familiari delle troppe vittime sulla strada, ecco perché il premio va a loro».
Marco trattiene ancora adesso le lacrime a stento. La sua voce si spezza e si ricompone in un delicato esercizio di pudore. «Quella mattina sono stato il primo ad arrivare in via dell’Industria, luogo della tragedia. Ad avvertire mia madre Flavia era stato mio zio Flavio, che quella mattina passava di lì. Nessuno, dico nessuno ci ha avvertito di quanto fosse successo. E dopo siamo finiti in un abisso eterno. Queste tragedie portano con sé tanti problemi. Quello della mobilità da parte dei soggetti deboli, come sono quelli che si muovo in bicicletta e l’assistenza alle famiglie costrette a piangere le loro vittime. Se ci fosse una mano che possa darti una carezza. Se ci fosse qualcuno che abbia la forza di donarti un abbraccio. Non devo essere io a trovare uno psicologo o un pedagogista. Noi in quelle ore tremende non avevamo neanche la forza di vestirci, un’assistenza degna di questo nome sarebbe stata davvero di aiuto, in un Paese civile».
Marco parla con infinito pathos, pesando le parole. Silvia, come me, lo ascolta. «Noi siamo fortunati, perché di cognome facciamo Scarponi. Michele era amato e benvoluto da tutti, ci ha lasciato un popolo di amore. Come fanno quelle famiglie che si trovano a piangere un loro caro e non hanno al proprio fianco un popolo d’amore?».
Marco da quasi quindici anni fa l’educatore per i bimbi con disabilità. Conosce il mondo della sofferenza, anche se adesso si trova a doverla vivere con la morte nel cuore. «Il lavoro che faccio è stupendo, ma anche molto difficile – aggiunge -. Le famiglie si trovano a vivere sofferenze indicibili, fatte di solitudine, esclusioni e dolore. Io credevo di essere forte, ma non è così. Non vedevo l’ora di vivere con mio fratello il momento della ricongiunzione. Dopo anni trascorsi in giro per il mondo a pedalare, Michele era quasi alla fine della sua carriera agonistica. Ancora un anno, massimo due, e poi per noi si sarebbe aperta una nuova fase della nostra vita: ci aspettava un futuro di bellezza insieme».
Non serve fare domande a Marco, adesso le parole gli escono da sole, fluenti e calde: rassicuranti. «Michele era il bambino più bello che abbia mai conosciuto. Allegro, energico, curioso e burlone come pochi. Io lo invidiavo. Sono sempre stato più riflessivo, ma sempre affascinato dalla sua energia, dalla sua voglia di fare. Senza Michele mi è morta d’improvviso anche l’infanzia. La nostra casa era il luogo dei sogni. Filottrano una comunità, nel senso più stretto e vero del termine. Michele era il re, l’anima lieve che tutto muoveva. Aveva preso la dolcezza e la saggezza da nonno Marino, e la tigna, la volontà da nonno Armando. Due energie diverse, come quelle di Apollo e Dionisio».
Nonno Marino, quello che portava Michele alle corse, e che un bel giorno incontrò il mitico Gino Bartali, al quale bastò un’occhiata per sentenziare con la sua voce roca e afona: «Questo ragazzino ha due gambette da corridore, mi raccomando, fate il suo bene…», ci racconta sognante Marco.
La Fondazione Scarponi non c’è ancora, ma ci sarà… «Ci stiamo lavorando e dobbiamo fare le cose per bene e con un nobile obiettivo: ricordare Michele e fare qualcosa di importante e utile per migliorare la mobilità sulle nostre strade. Per dare un aiuto a tutte quelle famiglie che ne hanno bisogno».
Marco sembra un marinaio in cerca del porto, che da Filottrano dista quasi 40 km. Scruta il cielo e fruga nei pensieri. «A giorni a Filottrano arriverà una tappa della Tirreno-Adriatico (11 marzo, ndr), mentre il Giro sfilerà veloce il 16 maggio, prima di giungere al traguardo di Osimo. Noi cercheremo di onorare al meglio nostro fratello. Non sarà facile, dovremo trovare forza e parole. Ma anche qualche sorriso, come avrebbe voluto Michele. Perché lui era così. Ma a noi occorre un po’ di tempo».
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