PROFESSIONISTI | 30/06/2017 | 07:25 Comincia il Tour e la famiglia di tuttobiciweb cresce: da oggi infatti Alessandra Giardini, collega che da oltre vent'anni racconta il ciclismo sul Corriere dello Sport Stadio, inizia la sua collaborazione. Dalla Grande Boucle ci regalerà una serie di ritratti dedicati a chi sta dietro le quinte. A cominciare da un numero uno assoluto come Archetti. A Beppe gli auguri di buon compleanno (anche se con un giorno di anticipo) e buon Tour, ad Alessandra il nostro affettuoso "benvenuta" e a tutti voi, come sempre, buona lettura.
Beppe Archetti lo conoscete tutti. È quello che aggiusta le bici in volo, stando fuori dal finestrino per trequarti e rimanendo agganciato all’ammiraglia per i piedi, o poco più. Se mi consentite un ricordo personale, era il ’96, era la prima volta che seguivo una corsa, e Alfredo Martini mi stava spiegando come funziona il ciclismo. I ventagli, le alleanze, quelli che tirano e quelli che succhiano le ruote. Poi a un certo punto ebbe un’idea. «Se vuoi capire come funzionano le corse, devi parlare con i meccanici e con i massaggiatori, i corridori non sanno niente. Lo vedi quello? Si chiama Archetti. Se vuoi sapere di ciclismo, devi parlare con Archetti».
E allora eccoci qua. Per noi è un altro Tour che comincia, per lui è ancora un compleanno - ne fa cinquantuno domani, 1° luglio - lontano da casa. Dalla sua Raffaella, quella che manda avanti il mondo mentre Beppe è alle corse, da Giovanni e Alexia, che ormai hanno ventitrè e diciannove anni e insomma sono grandi, e da Martina, che di anni ne ha soltanto tredici ed è quella che ha messo in crisi papà.
«Quando è nata lei ho cominciato a soffrire davvero per tutti i giorni che sto fuori casa. Casa è a Paderno Franciacorta. Ho cominciato nell’89, avevo ventitré anni, e dal ’91 sono in Nazionale. Questo è il venticinquesimo Tour».
Venticinque Tour passati a preparare bici sempre più perfette, a intervenire in volo, a interpretare uno sguardo, un movimento, una pedalata a vuoto. «Il primo fu nel ’90, il Tour di Chiappucci. Mi trovai all’improvviso dentro un frullatore, con questo brutto anatroccolo che andava come una moto. Ma se cominci con la maglia gialla al Tour è come cominciare la scuola dall’università. Sono stato fortunato».
Chiappucci si fece otto giorni in maglia gialla, e a Parigi arrivò secondo dietro a LeMond. «Al principio non sapevo neanche dov’ero. Poi ho capito: il Tour è tutto, è la cosa più grande che ci sia. A volte mi capita di incontrare colleghi che fanno questo lavoro da tanti anni ma non sono mai stati al Tour. Una bella sfortuna. Il Tour è tutto». Il Tour è la Francia, il ciclismo, la tradizione, l’immensità. «Chi ha la passione per questo sport non può che ammirare l’organizzazione, l’ordine sulle strade, il pubblico, l’attenzione per chi lavora dentro il Tour. Bisognerebbe soltanto copiare».
I primi tempi alla Carrera, poi il passaggio alla Mercatone Uno di Cipollini, Bartoli, Casagrande. E poi ancora gli anni in Saeco, una stagione alla Milram, otto alla Liquigas poi diventata Cannondale, gli ultimi due con Saronni alla Lampre e adesso la nuova UAE, sempre del Beppe di Goodwood. Ogni anno con la stessa idea: c’è sempre qualcosa da imparare. «Ho cominciato a farlo quando andavo a Bergamo nell’officina di Pietro Piazzalunga. Lo studiavo, lo riempivo di domande. Il mondo oggi è cambiato, ma molte delle cose che ho imparato lì sono ancora buone. Nel camion del meccanico dev’esserci tutto. Qualunque cosa. Può sempre servire».
Quest’anno il camion non è bastato. «Abbiamo anche un furgone in appoggio. Sono trenta bici da strada più diciotto da cronometro, non ci stavano. Più i cerchi, i tubolari, tutto quello che può servire in corsa. Anche le borracce». E’ sempre stata una vitaccia, ora gli orari sono addirittura peggiorati. «Colpa della tivù. Si parte più tardi, ma dall’albergo ti devi muovere comunque presto. Col risultato che ti alzi addirittura prima ma in compenso la giornata non finisce mai, sembra quintuplicata. Se alle 7 sei in piedi, è difficile che riesci a cenare prima delle 10 di sera».
Forse era meglio fare i corridori. «Ci ho anche provato. Ho corso fino ai dilettanti, ho vinto qualche gara, ma non era il mio mestiere. Ho avuto la fortuna che nella mia zona c’era Luciano Bracchi, mi fece cominciare alla Carrera. Cercavano un ragazzo, e io ero lì. Non mi sono mai pentito, no, ma quando è nata Martina ho cominciato a farmi delle domande. Ho trascurato molto la mia famiglia, ma ormai non ho alternative, il mondo del lavoro è quello che è».
Tutto cambia, anche i corridori. E Archetti ha visto passare generazioni intere. «Una volta eravamo quasi amici, anche questo col tempo si è un po’ trasformato. Il mio cocco? Ho avuto un grandissimo rapporto con Simoni. E’ un ragazzo d’oro: lavorarci e viverci assieme è stato un privilegio. E poi è bravissimo come meccanico. A volte con i corridori sei costretto a bluffare un po’, con lui era impossibile. Si accorgeva di tutto». Poi ci sono quelli che invece non si accorgono di niente. «Totò Commesso non avrebbe saputo distinguere la ruota davanti da quella di dietro». E quelli che è sempre un giorno dispari. «Cipollini è quello con cui ho litigato di più. Diciamo che discutevamo, ecco. Lui aveva il suo carattere, a me pure non manca, e insomma erano scintille».
E poi c’è il Tour, la corsa delle corse. «Il momento più bello è stato quando Chiappucci vinse al Sestriere, controvento, da solo. Ma anche quando vinse Simoni sui Pirenei. E tutte le volate di Cipo». Venticinque anni di Tour sono troppi per trovare un attimo più splendente di altri. Al contrario, c’è un incubo difficile da dimenticare. «Il momento più difficile e incredibile fu nel ’99, al Passage du Gois, la strada che viene inghiottita dalla marea. I corridori non stavano letteralmente in piedi. E io non sapevo cosa fare. In questi casi speri soltanto di uscirne il più velocemente possibile». Se in ammiraglia c’è Archetti parti già avvantaggiato.
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