STORIA | 20/11/2016 | 08:03 Ha cominciato a pedalare come interprete: Gran premio Agostinho, nel 1985, per la squadra sovietica e per i corridori polacchi. Poi ha continuato come commissario: prima solo in Portogallo, poi in tutta Europa, infine abbracciando il mondo. Adesso è, a suo modo, una donna sola al comando.
Isabel Franco Fernandes, portoghese di xxx, gli anni non si dicono, è la presidente della giuria dei commissari al Tour of Rwanda 2016. Riverita, ossequiata, rispettata, soprattutto temuta. Di lei si temono certi sguardi, i rimproveri, gli strali, le ammonizioni, le espulsioni. Nelle ammiraglie si accende la ricetrasmittente con la stessa solenne attenzione con cui durante la Seconda guerra mondiale gli italiani si sintonizzavano con la Bbc per ascoltare Radio Londra. Il suo unico comandamento è “le regole sono le regole”, una tautologia che non lascia spiragli. Allora come ora, si temono sentenze e punizioni. Per capirsi: prima di venire qui, Isabel aveva guidato la giuria al Tour du Faso, in Burkina Faso, dove – senza interpretare ma applicando strettamente il regolamento – aveva cacciato corridori giunti fuori tempo massimo ed espulso motociclisti colpevoli di guida irregolare, in particolare i motociclisti dell’organizzazione, addetti alle immagini da trasmettere nella tv nazionale. Un po’ come se, al Giro d’Italia, avesse squalificato i motociclisti della Rai.
Ma vista da vicino, Isabel sa prendersi con la dovuta leggerezza. E, divertita, racconta. Quella volta al Giro dell’Algeria, quando i corridori europei volevano scioperare perché pioveva (lei ribatté dicendo che la perturbazione aveva colpito anche l’Europa e infatti anche lì stava piovendo, poi comunque dette il via, e quando i corridori africani partirono, gli europei si misero scattarono dietro di loro), poi perché l’albergo faceva schifo (agli organizzatori lei pose un aut aut: o ripulite questo o ce ne date uno nuovo, e glielo ripulirono), quindi perché i premi finali erano stati cancellati (lei scovò il presidente della Federazione algerina nascosto in un’auto mentre se la squagliava, e di notte i premi arrivarono). Quella volta al Giro dell’Eritrea, quando scoprì che il camion-scopa, nei momenti in cui era vuoto, tirava su la gente, si trasformava in un pullman di linea e faceva pagare il biglietto, e quando scoprì che il camion-scopa aveva raccolto i corridori sudanesi poco dopo la partenza quando si erano già irrimediabilmente staccati e li aveva depositati a una decina di chilometri dal traguardo e quelli erano poi arrivati, erano stati classificati, e avrebbero anche voluto ripartire il giorno dopo. Isabel si oppose, ma fu investita da lamentele umanitarie: hanno solo bisogno di allenarsi, le spiegavano, slittando dalla preghiera alla implorazione. Allora lei propose che i sudanesi continuassero pure a correre, anzi, ad allenarsi, ma visto che erano fuori forma, impose che partissero due ore prima degli altri, in modo da arrivare, più o meno, contemporaneamente. E il bello è che i sudanesi obbedirono e ringraziarono. Per non parlare di quelle volte in cui certi corridori si erano ribellati al camion-scopa perché, rispetto all’anno precedente, erano stati raddoppiati i prezzi per quelli che si attaccavano. E per non citare Rio de Janeiro, prima al Tour di Rio e poi all’Olimpiade di Rio, anche lì ce ne sarebbero tante da raccontare.
Fra Europa, Americhe e Asia, Isabel ha scelto l’Africa. Vede forze, energie, talenti. Vede anche improvvisazione, disorganizzazione, approssimazione. Vede la possibilità di contribuire allo sviluppo del ciclismo. Vede la possibilità di insegnare che “le regole sono le regole”. Così ha deciso di darle, le regole, con rigore: da tre anni fa formazione in Eritrea. E intanto si sta innamorando del Ruanda.
P.S. Non diteglielo, a Isabel, ci rimarrebbe male. Ma i motociclisti dell’organizzazione del Tour di Faso sono poi rientrati in corsa, il giorno dopo, con altri giubbotti e altri caschi. Perché le regole sono le regole, ma fatte le regole, si trovano gli inganni.
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