Il Tour de France? “Che fatica”. E racconta: “Una volta stavo sorseggiando un caffè mentre la tappa stava per partire. Tanto c’è il trasferimento”, “Peccato che sono andati a sessanta all’ora prima ancora della partenza effettiva”, “Fu una rincorsa lunghissima, terribile, fino al rientro in gruppo”. Il Tour de France? “Che fatica”. E spiega: “In quegli anni lì si dormiva in palestre, caserme e scuole, nelle brandine messe una accanto all’altra. In uno stanzone mi è capitato anche di vedere un topolino che girava qua e là”, “Nemmeno a Hinault era concesso derogare. Una volta chiese di poter dormire in albergo perché c’era troppa confusione ma Levitan si oppose. O così o a casa!”.
Storie di Tour e Giro, di classiche e circuiti, di corse e corridori. Tra “Sorrisi e fantasia”, ecco il ciclismo di Silvano Contini, ricordi e testimonianze, ritratti e fotografie consegnate a Paolo Costa per Edizioni Sunrise (190 pagine, 15 euro, con la prefazione di Gabriele Tacchini e contributi di Dario Ceccarelli, Angelo De Lorenzi, Sergio Gianoli, Riccardo Prando e Luciana Rota). Stretto fra Moser e Saronni, Contini appartiene a quella generazione che oggi può sembrare così lontana – dalla fine degli anni Settanta all’inizio dei Novanta – per la sua semplicità, per la sua allegria, per la sua umanità. Tredici anni da professionista, una quarantina di vittorie, compresa una Liegi-Bastogne-Liegi, e quattordici giorni in maglia rosa, ma era necessario questo libro (ogni corridore avrebbe diritto al suo cent’anni di solitudine) per essere riscoperto, dalla prima bici (“Andavo a scuola con una bici da donna, quella della mamma, e con i coetanei si imbastivano sfide continue, così per divertirci”) all’ultima vittoria (la quinta tappa della Vuelta Murcia nel 1989).
E allora ecco Felice Gimondi (“Buongiorno e buonasera”, “All’inizio, andava così”, finché “Un giorno mi ha preso da parte e mi ha detto: da oggi puoi darmi del tu”) e Bernt Johansson (fuga a due, lo svedese che lo implora di non staccarlo, all’arrivo “la catena cade sul dodici e si blocca lì”, primo Johansson, che si scusa, “Eri fermo”, “Ho dovuto vincere”, “Mi spiace”), da quella volta in cui quasi si ubriaca (alla sua prima Liegi nel 1980, “Dall’ammiraglia mi vedono in faccia e pensano di avere di fronte un highlander”, “Manca una quindicina di chilometri al traguardo. Sono terreo, senza reazioni intellettive. Mi allungano una boccettina di cognac, gridando di berne un sorso. Lo faccio e mi rianimo”) a quella volta in cui piombò in una cotta (“Giro d’Italia 1980, tappa di Roccaraso, “Sono sceso dalla bici e mi sono seduto su un paracarro, giurando a me stesso che era finita, che non sarei andato avanti”, “I compagni che mi scortavano, Ennio Vanotti e Alessandro Pozzi, me ne dissero di tutti i colori”, “Offese, roba pesante. Ma furono convincenti”), dal tradimento della Tre Valli Varesine 1983 (“A un paio di chilometri, imprevedibilmente, fu invece Paganessi a scattare, lasciandoci di stucco. Non era quello che doveva fare e nel gruppetto lo sapevano tutti”, “Era della Bianchi”, la sua stessa squadra) al sogno del Giro di Lombardia 1979 (“Un pensierino ce l’avevo fatto, speravo che Hinault fosse un po’ stanco”, invece: secondo).
La coppia Contini-Costa, come in un Trofeo Baracchi, pedala regalando anche curiosità sorprendenti (“Ci concedevano qualche panino ‘trasgressivo’, con qualche ingrediente proibito come la mortadella”, “Panizza si confezionava dei sandwiches eccezionali con tonno e cipolle”, “Io ero fissato col cioccolato”), aneddoti illuminanti (Mondiali di Sallanches 1980, “A un certo punto ho dato un’occhiata a Saronni e vedo che lui mi strizza l’occhio e mi fa: ‘Quello là si è ritirato, possiamo farlo anche noi’”, “Fuori Moser, fuori Saronni”) e situazioni clamorose (Ruota d’Oro 1985, vinta, “Quando taglia il traguardo dell’ultima tappa fa il gesto dell’ombrello, che spiegherà essere rivolto alla Federazione e all’ambiente azzurro”, per l’esclusione dalla Nazionale).
Ragioniere per diploma, corridore per vocazione, falegname per professione, Contini non nasconde che “ci divertivamo un sacco”. Loro, allora, a pedali. Noi, adesso, a libri.