L'ORA DEL PASTO. LARGO TREVES E QUELL'EDICOLA CHE SA DI CICLISMO

NEWS | 21/02/2022 | 07:50
di Marco Pastonesi

Ancora un po’ e non arriviamo neanche in largo Treves.


Milano. Via Solferino. “La Gazzetta dello Sport”. Notte. Alle 23.30 la chiusura della prima edizione. Tutti a casa tranne quelli della notte per la ribattuta: un capo (caporedattore o più spesso vicecaporedattore), due redattori e un grafico. Più un’altra squadra in tipografia. Un presidio per rileggere il quotidiano e correggere eventuali errori, inserire notizie, aggiornare risultati, affrontare imprevisti e problemi. Fino all’1.30.


Regole di comportamento e istruzioni per l’uso venivano imparate sul campo e tramandate a voce. Dipendevano anche dal responsabile della ribattuta. C’era chi interveniva sul più possibile (ma ogni intervento, dunque ogni interruzione della stampa, aveva un suo costo), chi sul meno possibile, chi difendeva e privilegiava il proprio sport (aggiungendo i risultati della Nba, basket, o dell’Mbl, baseball, o della Nhl, hockey su ghiaccio, o delle Sei Giorni, ciclismo). Ma si viveva consultando l’orologio per riaprire e richiudere il giornale il più in fretta possibile per poter essere presenti, con le ribattute, nel maggior numero di edicole.

L’edicola più vicina era quella di largo Treves. Una specie di atollo nell’asfalto, un crocevia - via Solferino, via Statuto, via Palermo e via Montebello – ma anche un fortino della stampa, un avamposto dell’informazione. E un riferimento nel nostro gergo gazzettaro, nel nostro lessico famigliare, nel nostro linguaggio giornalistico. Ancora un po’ e non arriviamo neanche in Largo Treves: significava quanto fosse inutile inserire quella notizia o aggiornare quel risultato o correggere quell’errore, millecinquecento euro (così si diceva, mai controllato) buttati via. Un modo di dire che aveva senso quando “La Gazzetta dello Sport” (e il “Corriere della Sera”) era stampata in via Solferino e i camion per distribuire le copie partivano proprio da lì dentro. Un modo di dire rimasto anche quando la stampa era decentrata in vari poli, a cominciare da quello di Pessano, come per difendere la nostra storia.

Nel 2019, dopo 29 anni di vita stradale, l’edicola aveva chiuso. Nel frattempo era già cambiato tutto. “La Gazzetta dello Sport” traslocata in via Rizzoli, a Crescenzago. I quotidiani soffocati, stremati, strangolati da quelli gratuiti, da quelli su Internet dunque anche da loro stessi, e dalla incapacità di modificarsi, differenziarsi, valorizzarsi (ci si era invece riusciti con l’invasione e l’invadenza della tv) rispetto a quella lettura (su pc e su telefono) istantanea, superficiale, fuorviante se non falsa e ipocrita. Modestamente, era cambiata anche la mia posizione, prepensionato con altri sedici colleghi (i più anziani, a prescindere) per lo stato di crisi del giornale.

Dico la verità: solo una volta avevo acquistato la Rosea nell’edicola di largo Treves. Tornavo da una trasferta. Non resistetti alla tentazione. Quella copia del giornale era tiepida e fragrante, profumava di carta e inchiostro, sapeva di buono, emanava passione, trasmetteva amore. E conteneva tutte le ribattute. Pensai al pane. La redazione come un forno, il giornale come il pane. Il nostro pane quotidiano. E la lettura del giornale (dei giornali) era il nostro pane quotidiano.

L’altro giorno sono ripassato da largo Treves. L’edicola, nel frattempo riaperta nel settembre 2021, era chiusa. Perché non ha più orari da edicola, apertura prima dell’alba e chiusura dopo il tramonto, ma da libreria, diventata “luogo di aggregazione culturale di design e ponti tra la realtà virtuale/non virtuale”. Però, proprio grazie alle saracinesche abbassate, ho potuto ammirare le opere (si possono chiamare murales?) di Luca DiMaggio, dedicate al ciclismo. In un corridore mi è sembrato di riconoscere Fausto Coppi, per quelli su un tandem ho pensato subito a Bianchetto-Beghetto. E così, tra i cognomi Prestinari (Fabrizio, proprietario dell’edicola) e DiMaggio (Luca l’artista e soprattutto Joe eroe degli Yankees) e i campioni in bicicletta, ho riconosciuto un’antica parentela con le nostre notti milanesi.

Ancora un po’ e siamo arrivati anche in largo Treves.

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