FRANCO MORI. «AL "CAVALLINO ROSSO" ETTORE MILANO MI HA INSEGNATO IL MESTIERE»

STORIA | 18/03/2021 | 07:35
di Franco Bocca

 


Un altro corridore extraregionale che ha dato lustro ai colori astigiani del Cavallino Rosso nei favolosi anni ’60 è indubbiamente il veronese Franco Mori, classe 1944, che dopo aver imparato il mestiere alla corte di Ettore Milano ha poi saputo farsi valere anche tra i professionisti.


Franco, come arrivò al Cavallino Rosso?

«Ci eravamo conosciuti nel 1966 al Giro a tappe delle Antiche Romagne, quando correvo per il G.S. Bovolone di Verona. Ci siamo accordati per la stagione successiva e così, appena concluso il periodo di leva che ho svolto presso la Compagnia Atleti di Roma, sono arrivato ad Asti all’inizio del ‘67».

Come ricorda quella sua esperienza astigiana?

«Per me fu un periodo molto istruttivo. Era la prima volta che vivevo lontano da casa e l’incontro con un Direttore Sportivo esperto e carismatico come Ettore Milano è stato determinante per la mia carriera. Mi ha insegnato tante cose e se sono diventato un discreto corridore lo devo in gran parte a lui. Oltretutto a metà stagione ci siamo trasferiti a Novi Ligure, vicino a casa sua, così in settimana Ettore poteva seguirci meglio».

Ricorda i suoi compagni di squadra di allora?

«C’era Franco Balduzzi, che in certe giornate andava fortissimo ed era anche dotato di una certa classe ma non era troppo costante. Ricordo anche alcuni giovani astigiani come Avidano, Cantamessa, Turello, oltre al velocista Dono. Eravamo un gruppo affiatato».

Vinse molte gare in quella stagione?

«Ne vinsi cinque, una delle quali a Montegrosso d’Asti al termine di una lunga fuga a due con Vittorio Cumino. Diventai anche campione piemontese, grazie al secondo posto ottenuto ad Alba in una corsa cui partecipavano anche gli azzurri di Rimedio. Vinse Giannino Bianco, che però correva per una squadra lombarda, e così il titolo regionale lo vinsi io, che appartenevo ad un team piemontese».

L’anno successivo, però, non restò ad Asti…

«No, perché avrei dovuto passare professionista con la Germanvox, ma la trattativa andò in fumo a causa del blocco olimpico in vista di Città del Messico ‘68. Così per la delusione tornai a casa con l’intenzione di attaccare la bicicletta al chiodo. Poi mi convinsero a continuare con una squadra veronese sponsorizzata ancora dal Cavallino Rosso, che però era una entità staccata rispetto al team astigiano».

Però il debutto tra i grandi fu rimandato solo di un anno…

«Debuttai nel 1969 con la Sanson e poi difesi anche i colori di Molteni, Scic e Bianchi, con capitani che si chiamavano Gianni Motta, Michele Dancelli, Marino Basso, Franco Balmamion e Felice Gimondi. Sono stato soprattutto un gregario, ma ho anche avuto la possibilità di ritagliarmi alcune belle soddisfazioni».

Tipo?

«Il giorno più bello della mia carriera è stato il 18 settembre 1971, quando vinsi il Giro del Lazio. Quel giorno ero libero di fare la mia corsa e non mi lasciai sfuggire l’occasione, andando in fuga fin dall’inizio. Nel finale restai al comando con un avversario temibile come il danese Ritter, che all’epoca era il detentore del record dell’ora, ma nella volata conclusiva lo staccai nettamente di ruota. Nell’anno del debutto ero anche arrivato 3° nel G.P. Industria e Commercio e nella Coppa Sabatini e 5° nel Trofeo Baracchi in coppia con Vercelli».

La più grande amarezza, invece?

«L’ho provata al Tour de France del 1970 sul traguardo della tappa di Bordeaux che si era conclusa al fotofinish. Avevo già ricevuto i fiori della vittoria e il bacio della miss quando mi dissero che il tedesco Wolfshohl mi aveva battuto di un centimetro. Una sconfitta che mi brucia ancora adesso».

da La Stampa – edizione di Asti

 

 

 

 

 

 

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