
Trapè, che prima era Ardelio: del 1919, come Fausto Coppi, durante la guerra fu mandato in Africa, come Fausto Coppi, però in prima linea, a Tobruk nel 1941 e a El Alamein nel 1942, “le pallottole che gli fischiavano sopra la testa”, dopo la guerra tornò a casa, come Fausto Coppi, non da corridore ma da ciabattino, finché ricominciò non solo a vivere ma anche a correre, e a vincere, lo chiamavano “il Bartali dei dilettanti”, “perché fra i dilettanti era già vecchio però non mollava mai”.
Trapè, che poi era Livio: del 1937, fu Ardelio a ordinargli di irrobustirsi – a piedi, a correre, o nei campi, a lavorare – prima di salire su una bicicletta, perché lo vedeva gracile, fragile, smilzo, finché nel 1956 gareggiavano insieme nella Lazio (foto da Laziowiki) e nel 1957 nella Roma, “e tutti ci chiamavano ‘il vecchio’ e ‘il giovane’”.
Trapè, Livio, che stava a Meo Venturelli come Bartali stava a Coppi: in bici si facevano la guerra, giù dalla bici si facevano anche i complimenti, in bici si dividevano i tifosi e gli sportivi, giù dalla bici si dividevano le camere e i pasti, “ma se io posso dire di aver aiutato Meo a vincere qualche corsa, lui non ha mai potuto dirlo perché se ne dimenticava o fingeva di dimenticarsene. Ma gli ho voluto bene, e lui sapeva quanto”.
Trapè, Livio, che fu olimpico e olimpionico: olimpico quando venne convocato per rappresentare l’Italia ai Giochi di Roma, quasi la sua Roma, perché lui è di Montefiascone, Lago di Bolsena, provincia di Viterbo, sulla Cassia, olimpionico quando conquistò la medaglia d’oro nel quartetto della 100 chilometri con Giacomo Fornoni, Ottavio Cogliati e Toni Bailetti, tre giorni dopo prese l’argento nella prova su strada, “una quadrupla truffa”, ricorda lui, “la prima truffa per un pignone rotto, che mi costrinse a passare dal 14 al 18, la seconda truffa perché Pinella De Grandi, il meccanico della Nazionale, e anche di Coppi, non aveva una ruota adatta per me e così decisi di tenermi quella, la terza truffa una borraccia all’ultimo rifornimento, conteneva tè zuccherato e non glucosio e un complesso vitaminico, per la rabbia dopo una cinquantina di metri la gettai a terra e rimasi senza liquidi e senza energie, la quarta truffa – la ciliegina sulla torta - per un consiglio sbagliato nella volata finale a due con il sovietico Viktor Kapitonov, quello del giornalista Lillo Pietropaoli che stava sull’ammiraglia, mi gridò di scattare perché da dietro stavano rientrando, e non era vero, io partii lungo e fui saltato a 10 metri dal secondo oro, e ancora non mi do pace”.
Trapè, Livio, che fu professionista: sei anni, nel 1961 e nel 1962 con la Ghigi, nel 1963 con la Salvarani e nel 1964 con la Springoil, più il 1965 tesserato con la Libertas di Enrico Uccellini e il 1966 con il gruppo sportivo delle Panteraie di Montecatini, totale due vittorie, al Giro di Campania e alla Coppa Cicogna nel 1961, più tre secondi posti, al Giro di Lombardia, quando passò per primo – e senza spinte – sul Muro di Sormano, nel Gran premio di Alghero e nella Sassari-Cagliari nel 1962, più – fra l’altro – un terzo di tappa al Giro d’Italia nel 1964 e un terzo alla Vuelta nel 1966 (anche se gli annali riportano quarto: “Ventidue tappe in 18 giorni, a Santander, in volata fui superato dall’olandese Gerben Kartsens, smisi di pedalare e mi saltò anche lo spagnolo Ramon Saez, uno spilungone”), più il campionato italiano a squadre con la Ghigi nel 1962. Tanto, tantissimo, per qualsiasi corridore, poco, pochissimo, per un corridore come lui.
Trapè, Livio, abbonato alla malasorte: quella volta che, Giro d’Italia 1961, ventesima e penultima tappa, la Trento-Bormio di 275 chilometri con Pennes, Giovo e Stelvio (“Era in programma il Gavia, ma la notte aveva nevicato”), “stavo rientrando da solo su Rik Van Looy, Hans Junkermann e Carletto Brugnami, a Merano, ero nella scia delle ammiraglie, doppia curva, non segnalata, nella prima mi salvai, nella seconda mi schiantai, frattura del femore”, e addio.
Trapè, Livio, eroe di casa alla Carrareccia, “le mie strade, anche se preferisco quelle asfaltate”, eroe anche l’altra settimana, a Forlì, alla festa di Ercole Baldini, “fra tanti amici”. Ma su una cosa non è d’accordo: “Ma quale eroe, sono soltanto uno che va in bicicletta”.
Trapè, Livio, che a 81 anni (“Quasi 82”) giura che “la bici è la mia vita”, tant’è che ci va ancora, tre volte la settimana (“Una settantina di chilometri a uscita”) e la domenica il lungo (“Fino a un centinaio di chilometri”), totale “15 mila chilometri l’anno, ma senza tirarmi più il collo, ormai è già lungo abbastanza”.
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