GIRO HALL OF FAME, LA FESTA DI MIGUELON. GALLERY

INIZIATIVE | 05/04/2018 | 18:20
È sempre lo stesso, elegante e disponibile: un vero gentiluomo. Miguel Indurain lo ricordiamo signore e tale è rimasto nel tempo. Anzi, in questo gioiello di teatro, in questa bomboniera di arte e cultura che è il teatro Gerolamo, costruito nel lontano 1868, il Navarro sembra essere un ambasciatore: di se stesso e di tutto il movimento ciclistico mondiale.

Si muove con disinvolta eleganza, come quando in sella alla sua Pinarello rispondeva agli attacchi di Bugno, Chiappucci o Pantani. O come quando sulla sua “Espada” fendeva l’aria veloce nelle prove contro il tempo: la sua vera arma letale. Amava vincere Miguel, ma mai stravincere. Aveva rispetto di se stesso e degli avversari. Non è mai stato bulimico, ma si saziava con prelibati banchetti, nei quali non si abboffava mai, e divideva tutto con i commensali presenti. 

È rimasto il ragazzo semplice di sempre, che a soli 12 anni in sella alla sua biciclettina di color verde sfidava gli amici e come premio c’era soltanto un panino e una Fanta... «Ma a me era più che sufficiente», assicura ancora oggi. Poi è arrivato il tempo dello champagne, che l’ha consacrato campione leggendario, capace di vincere cinque Tour de France consecutivi, due Giri d’Italia, il Mondiale e l’Olimpiade di Atlanta con la semplicità e l’eleganza di chi è consapevole della propria forza, senza però mai ostentarla. Un Bugno di Spagna, anche se Miguelon, forse, era più consapevole delle proprie doti, mentre il nostro Gianni avrebbe volentieri barattato almeno un paio di Tour per una classica e un mondiale in linea.

«Un Mondiale mi manca, quello di Benidorm vinto da Gianni è un’occasione sprecata, ma la grande delusione è Duitama ’95. Un Mondiale preparato con puntiglio e purtroppo perso». «Ma io avrei barattato volentieri un Mondiale per un Tour…», precisa invece il fuoriclasse monzese.

È sempre stato un uomo equilibrato Miguel, misurato, ma anche un «hombre vertical», rispettoso e rispettato. L’esatto contrario del famelico Eddy Merckx, che nei banchetti non lasciava nel piatto nemmeno un pasticcino. Pier Bergonzi, oggi su La Gazzetta dello Sport, l’ha definito un “monarca illuminato”, mai definizione poteva essere più felice e calzante, perché non ha mai tolto luce e visibilità a nessuno, ma non ha nemmeno mai preteso di risplendere lui soltanto.

Cosa fa adesso Miguelon? «Disfruto…», mi diverto. Si gode la vita: la sua famiglia, sua moglie Marisa e il suo ragazzo Miguel junior. Lavora la terra, pedala sempre in sella alla sua Pinarello, per puro diletto, con quel piacere che ha sempre avuto, senza farsi mai ingolosire o cogliere dal desiderio di metterti la ruota davanti, perché lui che di tempo e cronometro se ne intende, sa che c’è un tempo per attaccare e uno per rifiatare: lui adesso si diverte.
 
Si è divertito meno alla sua prima e ultima Roubaix. «Con il mio fisico pensavano che fossi uomo adatto a quella classica. Mi dissero: “devi fare solo una cosa, stai attaccato a Francesco Moser”. Primo tratto di pavé e Moser non l’ho più visto».

Oggi, al Teatro Gerolamo, a due passi dal Duomo di Milano, nel cuore di una città che Miguel ha nel cuore, è entrato a far parte della “Hall of Fame” del Giro d’Italia. Nella galleria storica di una corsa che Miguel ha contribuito a fare grande: tre partecipazioni, due vittorie. Dal 1992 al 1994, in quel periodo del Giro targato Mediaset, e che ha tenuto a battesimo un certo Marco Pantani.

«Il ricordo più nitido che ho è quel giorno sul Mortirolo. Ho cercato di ribaltare la situazione, ho fatto di tutto per poter vincere il mio terzo Giro, e non ce l’ho fatta. Ho capito subito che Marco, in salita, era di un altro pianeta. Ricordo che era molto timido, molto rispettoso, ma il Pantani che ho incrociato io era molto giovane, puntava alle tappe».

Ad applaudirlo oltre al direttore generale di Rcs Sport Paolo Bellino, il direttore del Giro Mauro Vegni, il direttore della Gazzetta Andrea Monti ed il suo vice Pier Bergonzi, c’erano anche Claudio Chiappucci e Maurizio Fondriest.

«Parlare di Miguel è fatica perché mi tornano in mente le nostre sfide – racconta El Diablo -. Gli anni trascorsi a duellare con lui sono stati pesantissimi, perché mi ha fatto davvero patire le pene dell’inferno e per un Diavolo… Con lui non c’era via di scampo: dopo averle prese a cronometro, dovevo attaccare. Ma questo era davvero un osso duro. In ogni caso posso dire che è stato un gran signore. Rispettato da tutti. È stato un grande e oggi è un caro amico». 

E poi Maurizio Fondriest, che ha raccontato un aneddoto. «Ruta del Sol, pronti via e Miguel si è messo subito in testa a tirare con un ritmo per il gruppo semplicemente folle. Diversi corridori vanno a chiedere ai Banesto: “Ma cosa sta facendo?”. E loro: “Si sta allenando…”. Miguel era davvero pazzesco».
E poi l’appuntamento: «Farò il mio viaggio in bici a Santiago di Compostela, con Miguel pedalerò sulle sue strade di casa».  

Miguel viene da Villava, un piccolo centro alle porte di Pamplona, in Navarra. Primo dei cinque figli di Miguel Indurain e Isabel Larraya. Nasce e cresce circondato dall’affetto di una famiglia che affonda radici profonde nella terra basca, tra vigne, trattori e cani da caccia: una delle sue grandi passioni.

Incomincia a correre con la piccola squadra del paese, la C.C. Villaves: la prima bicicletta? Un’Alfa di color verde. Poi impara il mestiere al fianco di Pedro Delgado, alla Reynolds di Josè Miguel Echavarri ed Eusebio Unzue, due navarri che intravvedono subito nel loro corregionale un talento purissimo, una gemma preziosa che va solo tagliata bene.

Il debutto nel 1985, alla Vuelta, a soli 20 anni. Osserva, ascolta e studia. Perde anche 5 chili, per essere più competitivo in montagna e nel 1989 vince la Parigi-Nizza. Sempre nello stesso anno, al Tour, conquista la tappa di Cauterets sui Pirenei. L’anno successivo, dà spettacolo a Luz Ardiden, sempre Pirenei. Insomma, una crescita lenta ma costante, fino alla maturazione, che avviene a 27 anni, quando spicca il volo. Cinque Tour consecutivi, dal 1991 al 1995, come nessuno prima di lui. Senza vincere una sola tappa in linea, solo a cronometro. Lo schema è semplice: guadagnare il più possibile nelle prove contro il tempo, e difendersi stando con i migliori in montagna. Difficile che Miguelon vinca una tappa montana, ma difficile anche che perda le ruote. «Era la mia tattica, non potevo fare altrimenti. Io avevo buone doti di cronoman e poi lasciavo che fossero gli altri a darsi battaglia», ammette. E su Chiappucci che attaccava di continuo… «Se mi ha fatto impazzire? Più che a me, la mia squadra. Ricordo il nostro duello a Corvara: Claudio vinse, ma io arrivai alla sua ruota, ad un secondo».

Stesso schema al Giro. Fino al ’94, quando si trova tra i pedali Evgeni Berzin e Marco Pantani, i ragazzi del ’70. Il Giro lo vince il russo di Broni davanti ad un Pantani eccezionale che si palesa al mondo con le vittorie di Lienz e Aprica. Indurain è terzo. È la sua ultima rappresentazione sulle nostre strade. La resa al Tour arriva due anni dopo, nel ’96, quando deve cedere lo scettro al danese Bjarne Riis. Si consola con l’oro olimpico nella crono ai Giochi di Atlanta ’96. Nel settembre del ’94 aveva anche stabilito un nuovo record dell’ora (53,040 a Bordeaux, ndr), due anni dopo capisce che è anche l’ora di smettere. Non vuole portare in giro la bicicletta, non ha voglia di fare il cartonato vivente a grandezza naturale, da portare in giro per il mondo. Rifiuta contratti miliardari (c’era ancora la lira, ndr), sceglie di essere molto semplicemente Miguel Indurain, un grandissimo ex, che oggi è entrato nella galleria dei famosi, senza essere mai finito una sola volta nel tunnel.

Pier Augusto Stagi



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