BARTOLI, IL FIANDRE PERFETTO

STORIA | 31/03/2018 | 07:11
Quella domenica di Pasqua il cielo era livido, come ti immagini che sia un cielo fiammingo. Il giorno del Fiandre lo aspettano tutto l’anno qui, e la spianata di Sint-Niklaas era piena di gente prima ancora che il buio si alzasse. Non la trovi in tutto il Belgio, una piazza così grande. E quando ci arrivi, il giorno della corsa, lasciandoti spingere qua e là dal dondolare della folla, non vedi mai dove finisce.

Faceva freddo, veniva giù un’acquina noiosa, le strade si annunciavano fango. Sul palco, il solito speaker introduceva i corridori come se fossero stelle di Hollywood, facendo precedere il loro numero e nome dalla lunga serie di vittorie e piazzamenti che avevano raccolto fin lì, raccontando con la giusta retorica le loro imprese di prima, quelle che li avevano portati ad essere qui, adesso, pronti a giocarsi il sogno di ogni corridore: vincere il Giro delle Fiandre, diventare eroe per sempre. Si capisce che c’erano le eccezioni: non si poteva farla tanto lunga con quelli che non avevano vinto granchè, e infatti quando arrivò il momento della firma di Michele Bartoli, MG-Technogym, Italia, la cantilena durò il giusto. Bartòli, con l'accento sulla o, come lo chiamavano i fiamminghi riuniti a Sint-Niklaas, aveva vinto la Freccia del Brabante due anni prima, la Tre Giorni di La Panne l’anno precedente, e in quell’inizio di stagione aveva portato a casa tre corse laggiù dalle sue parti. Insomma, era un buon corridore di cui presto si sarebbero dimenticati.

Loro, i fiamminghi, aspettavano soltanto il momento di Johan Museeuw, che su queste pietre aveva imparato a correre prima che a camminare, e che era uno di loro, il migliore. Nelle scommesse - lo sport nazionale della vigilia - avevano indicato quasi tutti il suo nome, anche se questo voleva dire vincere poco o niente. Quello che contava era portare a casa la Ronde, il Giro.

Appena diedero il via ufficiale, e la muta degli aspiranti al trono partì con un ringhio rabbioso sulle strade lucide e scivolose di pioggia, gli spettatori fiamminghi si dispersero per i sentieri, pronti a raggiungere i sedici muri che trasformavano la loro corsa in leggenda. I più fortunati avrebbero aspettato i corridori sul penultimo, quello che non ha bisogno neanche di un nome, perché è il muro è basta. Il gruppo ci sarebbe arrivato dopo duecentoquarantasei chilometri, e a quel punto tutti avrebbero capito chi era il migliore.

«Vai, Bartoli, è fatta. Vai, vai, alè».
(Eddy Merckx, vincitore del Giro delle Fiandre nel 1969 e nel 1975)

Quell’anno Bartoli aveva sentito scattare qualcosa.
Nelle gambe, ma più ancora nella testa. Fino alla stagione prima era famoso in gruppo per andare un po’ troppo all’arrembaggio, attacchi strenui e continui, e quasi mai quello buono. Era arrivato comunque terzo in grandi classiche come la Liegi e il Lombardia, ma la mattina quando era ora di partire non aveva mai le idee troppo chiare. Quell’anno aveva cambiato squadra e il suo direttore sportivo, Giancarlo Ferretti, gli aveva tirato fuori una sicurezza diversa, nuova. Michele aveva vinto in Calabria, e anche alla Tirreno-Adriatico, e soprattutto si era accorto che quando decideva di scattare faceva male a tutti, anche a gente come Tchmil e Museeuw. La squadra era arrivata in Belgio accompagnata da una scia di polemiche. Alla Sanremo si era rivisto il vecchio Bartoli, mai fermo, sempre all’attacco, e Ferretti si era fatto sentire. «La Sanremo l’hai persa tu, il Fiandre fammelo perdere a me», gli aveva urlato. Ma Michele era convinto di poter vincere, era la prima volta che partiva per una grande corsa pensando che sarebbe arrivato davanti a tutti.

Lui le gare le ha sempre immaginate la notte prima, invece di dormire: si faceva un film nella testa, le percorreva chilometro dopo chilometro, e calcolava tutto quello che sarebbe successo il giorno dopo. Ovviamente non andava sempre come aveva immaginato, forse quasi mai. Quel giorno invece sì, andò proprio come nel suo copione. Tutto, o quasi.

Le riunioni tattiche di Ferretti erano sempre una sorpresa, mai una uguale all’altra. La sera della vigilia, nella saletta dell’albergo di Gand, una specie di ostello affacciato su un canale, nel centro vecchio della città, Ferretti non aveva speso molte parole. Aveva scelto una tattica piuttosto semplice, a saperla mettere in pratica. «Questa volta non vi dico niente. Dobbiamo soltanto portare Bartoli con i primi ai piedi del Grammont, poi ci pensa lui». La squadra era carica come una sveglia, Michele aveva la sicurezza accumulata nei giorni precedenti, lì in Belgio. Ad Harelbeke erano andati bene, come radiocomandati. Alla Freccia del Brabante invece Ferretti aveva fatto una cosa strana, a uno a uno aveva fermato tutti i suoi corridori, a un certo punto si erano accorti che aveva praticamente ritirato la squadra, voleva risparmiarli. I tre giorni di La Panne per Bartoli erano stati soltanto due, la mattina del terzo Ferretti era andato in camera sua e gli aveva detto di rimanere a letto, che non avrebbe fatto la crono. Michele non poteva saperlo, ma il suo Fiandre era già cominciato.

La prima volta che si erano incontrati, lui e il Grammont, era stato due anni avanti, al Fiandre vinto da Gianni Bugno: Bartoli era caduto sul pavè quando era nei venti in fuga, aveva rotto tutte e due le ruote e aveva dovuto aspettare l’ammiraglia tre minuti, e dopo era ormai troppo tardi per riprendere i primi, anche se Petito aveva tirato come un mulo per riportarlo davanti. Di quel primo Grammont Michele ricorda ancora un’emozione lunga e violenta, «mi sentivo un supereroe soltanto perché ero lì». La seconda volta era stata l’anno prima, era sempre con i migliori quando aveva visto Johan Museeuw andare via a tripla velocità. La terza volta era questa, e Bartoli aveva deciso che sarebbe stato lui a volare da solo incontro al traguardo.

Il pomeriggio della vigilia Ferretti li aveva portati tutti sul percorso, a provare i muri, e Michele aveva scelto il punto preciso. Aveva deciso di attaccare dopo una cinquantina di metri di pavè, proprio dove la pendenza allenta lievemente prima di impennare. Si era fatto l’idea di scattare col rapporto duro e di arrivare nel punto più difficile con un minimo di velocità in più, in modo da rendere impossibile il recupero degli altri. La sera, prima di addormentarsi, si era ripassato la corsa metro per metro, provando a prevedere ogni possibile ostacolo, e a superarlo. Ma per quanto si sforzasse, non capiva come avrebbe potuto perdere quel Fiandre. «Vinco per forza, come fanno a staccarmi sul Grammont?». Lo aveva detto a Fabio Colombini, il suo compagno di stanza, e avevano riso assieme. Colombini era di Livorno, era appena passato professionista e subito Ferretti lo aveva messo al fianco di Bartoli, gli aveva preparato lo stesso programma di corse, e anche il giorno dopo avrebbe dovuto scortare il suo capitano fino ai piedi del Grammont, senza mollarlo un attimo. E infatti erano insieme quando Colombini si frantumò la carriera, su un tratto in pavè, dopo centocinquanta chilometri di corsa, molto prima di arrivare ai piedi del Muur: erano fra i primi, quando un corridore gli cadde davanti, e lui gli franò sopra. Bartoli ebbe un’esitazione, si voltò a guardare, e il suo compagno di stanza gli urlò: vai, vai, non è niente.

«Sul Grammont avevo chiesto a Dio: ti prego, dammi la forza di resistere.
Poi mi sono vergognato, non si prega per queste cose».
(Michele Bartoli, vincitore del Giro delle Fiandre nel 1996)

Le case basse, rosso mattone o grigio lavagna, fanno da sfondo all’ultimo tratto in asfalto, largo, pulito. Non piove più, ma il cielo è ancora bianco di nebbia e nuvole. Fa freddo, Bartoli ha i manicotti, lui che di solito sta a maniche corte anche sotto la neve. I belgi non lo sanno ancora, ma questo clima è il suo preferito. A un certo punto la strada piega a destra e di colpo ti sbalza in un altro mondo, stretto e denso, una scala ripida da percorrere su due ruote, danzando sui sassi per non perdere il ritmo. E’ successo quello che Ferretti e Bartoli volevano, la squadra ha portato il capitano ai piedi del Muur con i primi, sono stati tutti bravissimi, Jaermann, Molinari, Fontanelli, Baldato, se soltanto si capisse dove è finito Colombini. Ma non c’è tempo per pensare, ora ci sono undici corridori che si giocano la storia negli ultimi quindici chilometri, e Bartoli è uno di loro. Tutto come aveva immaginato, come nel film che si era fatto.

Quando arriva nel punto scelto, Michele si alza sui pedali, scatta sulla scritta di vernice bianca, va. E’ uno schiocco secco, potente, che si sente nelle gambe e nella testa dei suoi avversari. Tchmil, Museeuw, Ekimov, Sciandri, Gonchenkov perdono strada. La gente urla, si sbraccia, lo spinge verso l’alto. Bartoli ancora oggi ricorda soltanto un brusio cupo, basso, una specie di «oooh» prolungato. Forse è delusione. O meraviglia, magari. E’ scattato con il rapporto che aveva in mente, il 41-19, ma lo gira molto velocemente. In cento metri fa il vuoto, se ne accorge senza bisogno di voltarsi, avverte che Tchmil perde contatto. Va a tutta fino in cima, come aveva deciso, vede la cappella a sinistra, segue l’urlo della strada, passa sotto lo striscione del Muur con pochi secondi di vantaggio, sei, forse sette, non più di otto. Sa di non poter mollare un attimo, c’è ancora il Bosberg prima del rettilineo finale, e deve arrivarci con un margine maggiore. L’ammiraglia di Ferretti è dietro, il vantaggio non è abbastanza perché la facciano passare. Bartoli è solo con il suo copione, non ha neanche la radio montata sul caschetto perché lo snerva. Ce l’avevano a La Panne, e Ferretti aveva urlato tutto il tempo: dài che vinciamo, dài, muovete quelle gambe, forza.

Solo con i suoi pensieri, Michele ha un'unica preoccupazione: andare più forte che mai, non farsi più riprendere, stare bene in bici, prendere le traiettorie giuste, risparmiare tutta la strada che può.
A un certo punto scorge una macchina gialla che lo affianca, è quella di un giornale belga, l’Het Volk, l’uomo alla guida ha il finestrino abbassato, si mette a parlare proprio con lui. «Alè, Bartoli, è fatta, è fatta». Questo particolare nel film del giorno prima non c’era, perché qualche volta la vita è anche più bella di come l’avevamo immaginata. Quell’uomo sulla macchina gialla è Eddy Merckx, e in quel momento Bartoli capisce che questa sarà la sua giornata di gloria. Non può essere che Merckx si sbagli, non al Fiandre. «Hai venti secondi, alè Bartoli». «Adesso hai trenta secondi, è fatta, vai». Merckx affianca ancora Bartoli sull’ultimo muro, il Bosberg, e poi in cima, e sempre gli dice quanto ha guadagnato sugli altri, e che ormai non lo possono più riprendere. Lo fa ancora e ancora, prima che arrivi l’ammiraglia di Ferretti a urlare sull’ultimo rettilineo, quando mancano un paio di chilometri.

Spinto dalle parole di Merckx, Bartoli si è gustato quell’ultimo tratto metro per metro, senza sentire un rumore, immerso in una bolla, in un film senza sonoro. Dall’alto del Bosberg fino al traguardo di Meerbeke Michele sente di volare, non fa più fatica, non teme più niente e nessuno. Il Fiandre è andato come nei suoi sogni, l’orco Grammont si è lasciato addomesticare, e d’ora in avanti tutto sarà diverso. I belgi non dimenticheranno più quel nome, Bartòli, impareranno a dirlo anche nel modo giusto, e di fianco reciteranno anche il suo nuovo nome, leoncino delle Fiandre. Perché prima di lui soltanto un altro italiano era arrivato da solo su questo traguardo: il leone delle Fiandre, Fiorenzo Magni. E adesso il popolo del ciclismo ha intravisto il suo erede, quarantacinque anni dopo l’ultimo successo alla Ronde del campione toscano. Perché quando sai andare sul Muur in bicicletta, allora sei un vero fiammingo.

Quando scorge la linea bianca del trionfo Bartoli si sbraccia, manda baci al cielo, si fa il segno della croce, ringrazia Dio che certo avrà avuto cose più importanti di cui occuparsi quel pomeriggio, ma comunque ha trovato anche il tempo di tenere una mano sulla testa di quel giovane corridore toscano che andava a tutta incontro al sogno della sua vita. Sono passate sei ore, trentuno minuti e ventinove secondi dalla partenza nella piazza di Sint-Niklaas, questa mattina: il tempo che separa un buon corridore da un campione. Gli altri arrivano dopo quasi un minuto, il suo compagno Baldato, e poi Museuuw, Ekimov, Fontanelli, Tchmil, Brochard, Gontchenkov, Sørensen, Van Petegem. Ferretti vola giù dall’ammiraglia e abbraccia il nuovo eroe delle Fiandre, non dice una parola ma è una delle poche volte che i suoi corridori lo hanno visto piangere. Dopo tanti anni, è ancora convinto di avere vinto lui, con la sua tattica. E Bartoli lascia dire. Uno alla volta arrivano anche gli altri. Erik Zabel a due minuti e mezzo, Lance Armstrong a più di quattro. Arrivano tutti, tranne uno.

Più tardi, in albergo, Ferretti telefonerà alla polizia e a tutti gli ospedali della zona. Rintracceranno Colombini soltanto alle otto di sera, ricoverato a Oudenaarde con una tripla frattura al bacino e una al femore. Quel Fiandre dominato dal suo amico Michele è stata la sua ultima corsa da professionista.

dal libro “Vedrai che uno arriverà” (Alessandra Giardini e Giorgio Burreddu, Absolutely Free editore, 2014)
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COMMENTI
Che ridere
31 marzo 2018 10:56 Mac75
In quei anni il ciclismo era poco credibile.. viva i boccettini%uD83D%uDE02%uD83D%uDE02

Boccettini?
31 marzo 2018 13:44 Anbronte
Mac75 curati ,

Che sia la volta buona?
31 marzo 2018 13:49 Moss
Quel Fiandre me lo ricordo benissimo era il giorno di Pasqua e allora vinse un Italiano arrivando da solo...A dimenticavo anche domani è Pasqua.

@moss
31 marzo 2018 16:51 teos
Anche l'8 aprile 2007 era Pasqua, ed ebbi la fortuna di vedere in diretta il mio primo Fiandre vinto da un italiano, nonché ultima vittoria tricolore (ad oggi) nella più bella (a mio modesto parere) delle classiche. Evidentemente il Fiandre nel giorno di Pasqua è roba che ci appartiene, speriamo sia davvero così per domani.. Dopo una bellissima (finalmente) Sanremo a tinte verdi-bianco-rosse, sarebbe fantastico riuscire a riassaporare il gusto di una vittoria al Fiandre dopo 10 e rotti anni di digiuno..

@teos
31 marzo 2018 21:50 Moss
E allora domani tutti incatenati al divano e dita incrociate

@moss
1 aprile 2018 01:24 teos
Assolutamente! La Ronde merita sempre un’attenzione speciale perché è IL ciclismo, poi se le premesse son queste.. Il mio sogno sarebbe quello di veder trionfare il debuttante al ballo Vincenzo Nibali per una ipotetica clamorosa doppietta Sanremo-Fiandre che oltre a rappresentare una delle imprese più memorabili nella storia dello sport sarebbe anche solo che linfa vitale per uno sport come il ciclismo che tra un dopato di lusso ed un altro ha solo che bisogno di spot d’altri tempi come questo. Ma mi rendo conto che si tratta di un sogno probabilmente troppo grande per essere realizzato. In alternativa sarebbe fantastico vedere il primo timbro su una monumento da parte dei nostri promettentissimi Moscon o Ganna, anche se quest’ultimo immagino che avrà poco campo libero dovendo lavorare per Kristoff. Se poi non dovesse proprio farcela uno dei nostri, tra i nomi stranieri, essendo loro tifoso, spero in un bis dei vincitori delle ultime due edizioni, cioè Gilbert o Sagan.

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