STORIA | 21/02/2018 | 07:31 Un po’ sociologo: “La bici da corsa? Una donna, una moglie, un’amante, tant’è che con lei si divide la camera da letto. La mountain bike? Un trattore. Il triciclo? Un passaporto universale, dai bambini ai disabili”. Un po’ psicologo: “La bici da città, da passeggio, da gita, da viaggio? La libertà. Il tandem? L’amore”. Un po’ umanista e umanitario: “Lavoro a fasce sociali. Chi può, paga. Chi non può, paga come può. Ed è così che, non solo a Natale, mi arriva una soppressa, o una zucca, o una grappa, o una caciotta, o una cassetta di cachi. Bisogna saper aspettare: il tempo è galantuomo”. Un po’ artista: “L’anima di una bici? Il telaio, ma quello in acciaio. Lo spirito di una bici? Sentire le ruote che girano. Il cuore di una bici? Le ruote che girano e si fermano con la valvola in basso: è il segno della perfezione”. Renzo Dalla Rosa è il sedicente Peter Pan delle biciclette: come se fossero forcelle e selle, freni e deragliatori, guaine e raggi a sentirne il richiamo, a concedersi e ad affidarsi, a farsi curare e guarire da lui. A Feltre, negozio e officina, vetrine e scaffali, in via Belluno, interno civico 57, esterno stradale parcheggio. Sessantasei anni il prossimo 13 marzo, feltrino, crapa pelata, fisico da passista, Dalla Rosa ha sintetizzato la sua filosofia in un adesivo attaccato, per mettere le cose in chiaro, sul vetro della macchina: “Bici è… emozione”. Papà mercante di vacche (“E appassionato di ciclismo”), mamma casalinga (“Tre figli e una casa da far quadrare”), lui il primogenito (“A quattro anni la prima bici, poi ogni due anni una bici nuova a me e la bici vecchia a mio fratello”), Torpado il regalo (“Rossa e bianca la prima, bianca e celeste la seconda”), poche gare da ragazzo ma di più da amatore (“Un titolo veneto a cronometro, altri provinciali”), alti e bassi scolastici (“Avevo 10 in italiano, poi però fui bocciato alla maturità perché pensavo di saperne di più degli insegnanti”) e sempre questa passione rotonda (“Un’officina, il sogno della mia vita”).
“Cichi” racconta dell’eredità paterna (“Fu il primo in paese ad avere la radio, e tutti ad ascoltare il Giro d’Italia alla nostra radio, e fu il primo in paese ad avere la tv, e tutti a guardare il Giro d’Italia e il Festival di Sanremo alla nostra tv”), della tappa del Bondone nel 1956 (“Sulla Triumph di mio padre, lui alla guida, un suo amico dietro e io sul serbatoio, e siccome le marce erano proprio sul serbatoio, ogni volta che mio padre cambiava mi dava dentro, arrivai a casa con un buco nei pantaloni di velluto”), di Fausto Coppi (“Al Giro d’Italia del 1956, forse sul Campolongo”) e di Rik Van Looy (“Con la maglia di campione del mondo, in salita sul Pordoi, le mani nella sacchetta del rifornimento, sembrava una manovra impossibile”), e del primo negozio (“Non sapevo fare nulla, eppure ero nato per fare quello. Lo comprai in mezzo pomeriggio, ma a una condizione: chiesi al proprietario, il signor Carpene, di rimanere un anno con me per insegnarmi il mestiere. Lui mi rispose che lo avrebbe venduto solo a condizione di poter rimanere lì, ed è rimasto fin quasi alla sua morte”). Dalla Rosa ha sempre sorriso alla vita, e la vita lo ha sempre ricambiato: “Chiudevo il negozio alle sette di sera, andavo a casa, mangiavo un boccone, tornavo al negozio e rimanevo lì finché non avevo esaurito i lavori o non avevo imparato la mossa giusta”, “E ho anche imparato a costruire le ruote al buio, a 36 o 32 o 28 raggi, con i nipples in bocca”, “Un giorno mi telefonò Mario Beccia, c’era un posto da meccanico all’Aki-Gipiemme, a giornata, a settimana, a corsa, ci rimasi quattro anni, di qui e di là, dalla Settimana Catalana al Midi Libre, mi divertii come un matto”,
“Siccome avevo la patente per guidare le corriere, mi affidarono il camion, andavo dalla partenza direttamente all’arrivo, dovevo trovare l’acqua, la corrente e il box per le bici, preparare le camere per corridori e staff, attaccare la lista alla reception, infine smontare, pulire e rimontare le bici”.
Renzo l’ingenuo: “I corridori mi chiedevano quantità industriali di ghiaccio. Pensavo che volessero tenere in fresco le borracce, finché un giorno, entrando in una camera, capii”. Renzo il romantico: “Quando Menthéour scrisse il libro sul doping, corsi a comprarlo e lo divorai. Faceva nomi e cognomi, io non sapevo niente ma li conoscevo tutti”. Renzo lo stakanovista: “Quando tornavo a casa, c’erano gli arretrati: una montagna di bici. Il mio record fu 22 ore di lavoro ininterrotto, dalle tre di notte all’una di notte del giorno dopo, poi però ebbi un cortocircuito”. Renzo l’ottimista: “Il futuro? Può essere solo migliore”. Renzo il realista: “La cosa più difficile? Far passare tutti i fili all’interno”. Renzo l’innamorato: “Io sono un materialista, mia moglie Maria una spirituale. Tutti e due abbiamo sempre fatto quello che ci piaceva”. Renzo il papà: “A 21 anni. Ci siamo così spaventati che ‘Tupac’ – il suo vero nome sarebbe Massimiliano – è rimasto l’unico”.
Adesso Renzo e “Tupac” lavorano insieme: “Da cinque anni ci siamo inventati meccanici di strada. Alle granfondo, una ventina, dalla Campagnolo alla De Rosa, dalle Strade Bianche al Lombardia. La mia missione è portarli tutti al traguardo. Il mio capolavoro in una Maratona delle Dolomiti: riparai un cambio, distrutto, con un tronchetto di legno raccolto in una segheria e un pezzo di camera d’aria tagliato e adattato. Mancavano 50 km alla fine. Il marchingegno resse, il corridore arrivò. Fu un trionfo”.
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