STORIA | 05/02/2018 | 07:10 Il calcio non faceva per lui. Due partite ufficiali, alla seconda perse la pazienza e rifilò un cazzotto al suo avversario, dieci minuti kappaò, la paura di averlo ammazzato, al confronto la squalifica a vita gli passò inosservata. Neanche nel ciclismo fece molta strada. La prima volta che andò a vedere una corsa, a dieci anni, da Faenza a Castel Raniero, sei chilometri ad andare e sei a tornare, al rientro a casa fu riempito di botte. Per cominciare a correre dovette aspettare i diciotto anni, quando acquistò una bici da corsa a scatto fisso da Vito Ortelli. Ortelli lo sedusse parlandogli di Bartali e Coppi, di Alpi e velodromi, con un duplice effetto: quello di legarlo per sempre al ciclismo, e di staccarlo definitivamente dal gruppo.
Se il ciclismo è dieta alimentare, peso mosca e pedalata frullante, allora no. Ma se il ciclismo è – anche, ancora, soprattutto – storie e avventure, sgroppate e scampagnate, mangiate e bevute, allora Picio ne è il Peter Sagan, consacrato campione del mondo. All’anagrafe risulta pubblicamente e formalmente come Giovanni Calderoni (e la sua epopea è già stata tracciata qui da Beppe Figini), ma per tutti è personalmente e semplicemente Picio: “Fin dalle elementari. Ero piccolotto e cicciotto. Poi sono cresciuto, ma sempre tanto e tondo”.
Dopo le elementari cominciò a lavorare: “In classe dormivo. L’esame di quinta lo superai copiando. Anche i miei genitori capirono che non era il caso di insistere. Andai garzone da un falegname, ci rimasi cinque anni, ne uscii intossicato. Finii in Comune: trentanove anni da stradino, io, il furgoncino e il catrame”.
Ma c’era il ciclismo: “Ero un bambino, un giorno mi presero su per vedere Bartali e Coppi. La mia prima biglia di vetro fu quella con Rudi Altig. Per andare al Trofeo Tendicollo Universal a Villafranca di Forlì, dove correvano Jacques Anquetil e Ercole Baldini, per non pagare il biglietto guadammo il fiume e attraversammo una cascata. Poi diventai tifoso di quei corridori che non vincevano mai e mi affezionai a quelli matti, da Gianni Motta a Michele Dancelli, soprattutto a Meo Venturelli. Ortelli ce lo diceva sempre: ‘Quel ragazzo non ha la testa’. La bottega di Vito, a Faenza, era sacra come una chiesa per chi ci crede, come una cantina per chi beve”. Picio ha il suo sano punto di vista sul ciclismo: i raduni (“Vado solo dove ci sono i maccheroni, il formaggio me lo porto da casa”), il doping (“Direttamente in galera”), l’antidoping (“Chi fa una buona colazione non ha bisogno di nient’altro”), il bello (“Più entusiasmo e meno casino che in altri sport”), il tifo (“Più baldanzoso e mai a sfavore, mai contro”), la passione (“Se ti va di correre, arrivi fino a ventuno sacrifici”). Perché ventuno, non si saprà mai.
Da adesso Picio, anni 68, ufficialmente pensionato, puntalmente giudice di gara, eternamente disponibile (dalle gimkane dei giovanissimi al Giro d’Italia Under 23: nella foto ritratto proprio mentre attende, con esperta e consapevole tranquillità, l’arrivo dei corridori nell’edizione 2017), entra in fibrillazione per preparare la lunga rincorsa al Mondiale faentino: è la Coppa Caduti di Reda, il Fiandre di Romagna internazionale prima per juniores poi per Under 23 organizzato dalla Roda Reda, centocinquanta chilometri e sette strappi (“sett strapp” in romagnolo), la presentazione in marzo, la corsa in aprile. “Sport, festa, spettacolo. Ci sarà da mangiare e bere, ridere e scherzare, ricordare e sognare”. Perché un sogno ancora da esaudire il Picio ce l’ha: vivere una tappa al Tour. Accontentiamolo, dai.
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