LUTTO | 25/09/2017 | 09:41 Diceva di essere un selvatico. Un modo per spiegare antichi valori come riservatezza e pudore. Un modo anche per difendere il suo ruolo e i suoi doveri. Di gregario. Perché Fiorenzo Crippa era un gregario. Di Fausto Coppi, in corsa, e di Fiorenzo Magni, nella vita. E’ morto ieri mattina, alle 8, nell’ospedale di Vimercate. Con la sua riservatezza e il suo pudore, senza fare rumore, il giorno del Mondiale. Aveva 91 anni.
Era nato ad Arcore, quando Arcore non era la villa di Berlusconi, ma la sede di fabbriche meccaniche e tessili, e soprattutto della Gilera. Crippa Fiorenzo - come si firmava, come si presentava: il cognome, innanzitutto, per dichiarare la provenienza familiare – a 14 anni lavorava alla Falck, acciaierie, correva da allievo, ciclismo, ed era così magro e stanco che non finiva neanche una gara. Si era messo d’accordo con un amico, perché gli venisse incontro e lo riportasse a casa: “Al traguardo – mi raccontò Crippa spalancando il suo cuore - non arrivavo mai. Finché un giorno presi una solenne decisione: ‘O arrivo o smetto’. A San Giorgio di Legnano: fuga a due con Pongolini, volata, lui primo, io secondo. La domenica dopo, a Legnano: fuga a due ancora con Pongolini, volata, lui primo, io secondo. E decisi di continuare a correre”.
Non che in famiglia fossero felici: “Mio padre mi sgonfiava le gomme, mia madre si raccomandava ‘va’ piano, non burlare giù’, la nonna mi riempiva la bici di santini, ramoscelli di ulivo e sacchettini pieni di medagliette. Sembrava che andassi a una processione, non a una corsa. La mia prima bici era Sala e si chiamava ‘La Brianzola’. Usata. Costava 850 lire. Le risparmiai su tutto. Il giorno in cui raggiunsi la cifra, andai al cinema con un amico. ‘La cena delle beffe’ con Amedeo Nazzari. Una vera beffa, perché fu lì che mi fregarono il portafoglio. Se lo avessi detto ai miei genitori, sarebbero morti. Stetti zitto e ricominciai a risparmiare da zero”.
Finalmente giunse la prima vittoria: “Alla Coppa dei cinque laghi, a Erba, quasi un campionato italiano, la giuria sistemata su una camionetta dei soldati tedeschi. Arrivai da solo, con quattro minuti di vantaggio. Mi volevano tenere là, a mangiare e a bere, invece io preferivo tornare subito a casa”. La sua riservatezza, il suo pudore, già allora. “E ci tornai subito, in bici, perché mi aspettavo un’accoglienza trionfale. Invece non c’era anima viva. Mi sedetti su un paracarro, più triste che arrabbiato. Poi scoprii che c’era la festa del paese. Che fregatura”.
Era proprio un altro ciclismo, soprattutto per quello che succedeva prima e dopo la corsa: “A Mede Lomellina, feci 100 chilometri per andare alla partenza e altri 100 per tornare a casa, più i 180 della gara. Partivo la mattina presto, tornavo la sera tardi. Partivo con panino e robiolina, tornavo con una fame da lupo. Partivo a mani vuote, tornavo – se mi andava bene – facendo i salti mortali. Ma bastava forare un tubolare, e la festa era finita”.
La Coppa dei cinque laghi fu l’ultima corsa prima della guerra: “Si ricominciò a correre, tutti insieme, grandi e piccoli, indipendenti, dilettanti e allievi, nel 1945. Qualche corsa vinta, tante no, anche per sfortuna. A Vighizzolo andai in fuga, ma si staccò il battistrada, perché le gomme erano rifatte, e venni ripreso. Conobbi Fausto Coppi alla Milano-Varzi: aveva la maglia arancione della Nulli, la corsa fu vinta da Serse Coppi, che quel giorno aveva la maglia della Legnano, quella di Fausto nel 1940. Rividi Fausto al Circuito degli assi a Milano: era di nuovo super. La prima volta gli avevo dato del lei, la seconda m’impose il tu. Nel 1947 ero dilettante al Pedale Monzese, che era in contatto con la Bianchi. Un giorno di primavera, mentre ero ad Alassio per allenarmi a mie spese, arrivò Ubaldo Pugnaloni, gregario della Bianchi, e mi consegnò bici, gomme, qualche maglia biancoceleste e un vaglia di 10 mila lire. Di bici, gomme e maglie biancocelesti ero proprio contento. Del vaglia un po’ meno: non sapevo neanche come cambiarlo in lire”.
Alla fine del 1947 debuttò fra i professionisti: “A Prato, in Lombardia, ma sempre con la maglia del Pedale Monzese. Nel 1948 indossai finalmente quella della Bianchi. Gregario, ma di Fausto Coppi”. Dal al 1948 al 1956, anche per Legnano e Ignis, conquistò una sola vittoria, ma partecipò a quelle che hanno scritto la storia del ciclismo, e anche dell’Italia. Le sue storie le ho raccolte nel libro “I diavoli di Bartali” (Ediciclo). Quella volta che, Giro d’Italia 1949, tappa Venezia-Udine: “In fuga con dei pezzi da 90, pensai ‘bene, stavolta arrivo con i primi’, e in pianura andai a tutta, Adolfo Leoni vinse e indossò anche la maglia rosa, io settimo, ma in albergo, invece dei complimenti, musi lunghi e silenzi pesanti, finché capii di averla fatta grossa: i gregari di Coppi non avevano giornate di libertà”. A meno che: “Soltanto quando correvo da solo, senza compagni, senza macchina, senza nessuno, allora potevo fare la mia corsa. Nel 1950 avrei dovuto correre un circuito a Broni, nell’Oltrepò Pavese, ma la sera della vigilia, alla radio, recitarono l’elenco degli iscritti e l’ultimo ero io. ‘Eh no – mi dissi – allora domani vado alla Bernocchi’. ‘Quando c’è da prendere degli sghei – mi fece mia madre – tu vai alla Bernocchi dove non arrivi neanche in fondo’. Un bell’incoraggiamento. Il giorno dopo rimasi con i primi, volata lunga, avevo ancora della birra in corpo e non ce ne fu per nessuno: primo io, secondo Martini, poi Petrucci, Minardi, Soldani. Il lunedì mattina mi presentai alla Bianchi, in viale Abruzzi, a Milano, e mi sedetti lì, ad aspettare. ‘E allora?’, mi chiesero. ‘Non ho niente da dire’, risposi. ‘E’ proprio un selvatico’, commentarono fra di loro”.
Era un selvatico. Era un gregario. Era Fiorenzo Crippa. Anzi: Crippa Fiorenzo.
Marco Pastonesi
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