Rapporti&Relazioni
Vecchio ciclismo, è ora di crescere
di Gian Paolo Ormezzano

Francesco Moser non ce l’ha fatta a diventare presidente della Federazione di ciclismo, il suo sport, così come Maurizio Damilano ha fallito la scalata all’atletica leggera e Gianni Rivera è stato stoppato all’inizio di un pur vago progetto di sua ascesa al comando del calcio. Gaetano Coppi, lui pure ex atleta, ce l’ha invece fatta nello sci, dove però non ha dovuto battersi contro il presidente uscente, che non si è ricandidato; e il fatto di essere stato un buon atleta ma non un grande campione significa anche essersi fatto meno nemici.

Subito dopo la non elezione Moser ha palesato amarezza e persino rabbia. Noi siamo stati interpellati in prossimità dell’elezione, per un pronunciamento pro Moser. Non ci è costata nessuna fatica farlo, e non per andare contro il rivale di Moser, ma semplicemente perché non si può non amare un Moser e non vederlo a capo del ciclismo. Al limite, anche se fosse provato che lui non sa fare il presidente federale, bisognerebbe essere lo stesso con lui perché sì, perché è Moser, perché tutto lo sport ha bisogno di ex atleti, meglio se anche ex campioni, che si schierino, che si diano da fare per il loro sport.

Ma alla base di questo bisogno non ci deve essere, secondo noi, il calcolo del richiamo che gli ex campioni possono esercitare, del carisma che possono emanare. Ci deve essere invece la constatazione della fine di un certo volontariato, e della necessità che al suo posto arrivi quello degli ex, sennò si chiude. E mica stiamo parlando soltanto del ciclismo, ma di un po’ tutto lo sport dilettantistico.

Il volontariato tradizionale, quello che creava i dirigenti, i tuttofare, i devoti, i fanatici del lavoro nello sport, sta scomparendo. Sinora si era trascurato il ricambio fisiologico, però soltanto teorico, costituito dagli ex atleti, i quali in un certo senso venivano lasciati riposare, o al massimo erano, dai volontari, usati come simboli. Adesso gli ex atleti sono necessari, per fornire ufficiali di gara, giudici, cronometristi. Soltanto il calcio si è permesso di bypassare il problema, creando intorno e dentro di sé tanto professionismo, in primis quello degli arbitri che ormai guadagnano molto: e infatti il calcio non ha bisogno del volontariato dei suoi ex per tirare avanti. Ma adesso, in tutto lo sport non del pallone, gli ex atleti sono una necessità di sopravvivenza. Per questo bisognava essere con Moser, per questo si deve sperare che Moser in qualche modo «resti».

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Una volta si diceva: uffa questo ciclismo, sempre in mano a poche nazioni, Italia Francia Belgio con partecipazione saltuaria di Olanda Svizzera Germania Spagna. Adesso si dice: uffa questo ciclismo, vincono anche gli ungheresi e gli estoni, i circassi e gli zuavi, gli ottentotti e i papuasi. La forte mondializzazione di uno sport che in fondo rimane il più ricco di radici e forze popolari sembra un limite, un insopportabile sparpagliamento, come prima sembrava esserlo una geografia minieuropea molto concentrata.

La verità è che il ciclismo non è riuscito a darsi una forza definitiva quando aveva una geografia comoda, facile, e non riesce a darsela adesso che ha una geografia vasta, impegnativa. Poteva prendere possesso dello sport mondiale negli anni Cinquanta, allorché, come ha ricordato anche Giorgio Tosatti in un suo intervento scritto, dominava sul calcio. Non lo ha fatto. Adesso è più grosso di prima, ma è decisamente meno grande. E purtroppo non si tratta proprio di un gioco di parole.

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Come si fanno rilevamenti continui sulla presenza dei vari leaders politici sui giornali e in video, se ne dovrebbero fare sulla presenza del ciclismo nei media. Con opportune divisioni: per esempio “ciclismo di Pantani”, “ciclismo extraPantani”. Ci sarebbero grosse dolenti sorprese.
Il ciclismo extraPantani, e dunque in un certo senso il ciclismo liberato da problemi e polemiche del doping, ha perso del terreno, a pro magari dello spazio dedicato alla vicende giudiziarie del Pirata. Sarebbe un po’ come se si parlasse meno del regno d’Inghilterra e più delle avventure e sventure di Francis Drake (gran pirata appunto, o forse più ancora gran corsaro: ed Enzo Ferrari veniva chiamato Drake per un parallelo con quello scorritore di mari, non per definirlo, come peraltro molti pensavano, drago, che in inglese fa dragoon).

O forse è giusto non dedicare tempo, soldi, attenzioni a questo tipo di ricerche. Tanto fra poco ci sarà soltanto il calcio, nel diorama sportivo italiano, e si andrà in bicicletta, così come si praticherà ogni altro sport, soltanto in chiave di curiosità, di divertissement.
Abbiamo letto da qualche parte che Marco Pantani potrebbe essere valido per la mountain-bike.
E non ci risulta che nessuno sia ancora morto di paura, o di crepacuore.

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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