Quella bicicletta appoggiata al muro...
di Gian Paolo Porreca
C’era una bici nel nostro cuore. Una bici ferma, nel cuore, quella «Vicini» con il manubrio da turismo e il cambio, del professor Marco Biagi, appoggiata al muro, che al muro si confida. C’è una bici nel cuore, in fiore perpetuo, come simbolo, come sinonimo di pace, di umanità.
La violenza, ne siamo ancora più convinti, in questa Domenica delle Palme, è tutto quello che non è ciclismo. Appartiene a tutti quelli che non amano il ciclismo. O viceversa, una persona che conosce, che pratica, che ama il ciclismo, è per suo naturale destino un non-violento: è l’Uomo della Pace. Chi ha ucciso Marco Biagi sapeva tutto di rombi e frastuono, forse, di telematica, ma non sapeva nulla di ciclismo, non era educato o non era stato educato alla frequentazione del suo gesto, della sua spontaneità, del suo silenzio, di quella preziosa solitudine che crea in noi il dialogo con noi stessi.
La bicicletta di Marco Biagi, in prima pagina su Il Mattino del 22 marzo, è la struggente enunciazione di questa verità da meditare. Una muta dichiarazione di fede. E l’esigenza di diffonderlo, come una semina, questa fede. Ci sovviene una splendida fotografia artistica di Luigi Ghirri, letteraria, «Luzzara 1974», con una bici sorprendentemente simile a quella dello scomparso professore bolognese, appoggiata ad una parete chiara, di sotto ad un’edicola votiva, con la Madonna in preghiera.
Dci vengono in mente, nella stessa riflessione, le biciclette che hanno riportato per prime lo sport in Afghanistan, o quella bici da corsa che sette, otto anni fa un superstite jugoslavo di Bihac portava come suo immenso patrimonio sulle spalle, o quelle bici di un altro tempo che vediamo ancora sospinte dai contadini, o sono loro a spingerle i vecchi padroni, sulle strade di campagna, al nostro paese, a Carano di Sessa Aurunca. Le bici di un «homo faber».
La bicicletta di Marco Biagi, simbolo di una filosofia di vita, che non ha etichetta politica, ma ha il tratto del sentimento se non della morale universale, vorremmo che diventasse ogni giorno di più il nostro quotidiano punto di riferimento. Essere «ciclisti», per quanto ne è insito di onestà, di fantasia, di rispetto degli altri, nella vita. Anche quando non andiamo in bici.
Rendiamoci noi, rendetevi voi, autori e lettori, protagonisti di parole e di gesti di questo giovane giornale di sport, e rendetevene conto innanzitutto voi atleti, dell’enorme lezione che è rinchiusa in una bicicletta ferma. E di quanta non venale ricchezza, di civiltà e di cultura, essa sia stata testimone, da generazione in generazione, dai nostri nonni ai nostri figli.
E la bici di un bambino divenuto grande, grandissimo, quella «Vicini», è il primo regalo, è l’affacciarsi all’esistenza, orgogliosi e liberi, orgogliosi della libertà, in una pedalata. È il vedere il mondo di fianco, e tu che lo traversi. Vorremmo che l’umanità fosse uno sterminato prato su cui piantare biciclette. E che nessuno si arrogasse mai più il diritto, la violenza, di poterne fermare sia pure una.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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