Lungo e magro, con gli stessi grandi occhi scuri: Fabio Aru non è cambiato dalle foto in cui era un bambino selvatico, con la Sardegna eternamente sullo sfondo. Un Giro d’Italia è insieme un viaggio nel passato e nel futuro, e quando sta per cominciare è facile chiudere gli occhi e riavvolgere la pellicola. E rivedere ogni cosa in quei grandi occhi scuri. Occhi diffidenti in principio ma che poi con un po’ di impegno si sciolgono, occhi che sanno patire e sorridere, occhi che non dimenticano.
«Sono nato a San Gavino Monreale, nel Campidano, a sud della Sardegna. Lì c’era l’ospedale, ma casa mia è sempre stata a Villacidro». È il 3 luglio 1990, sono le notti magiche dell’Italia del calcio, a Napoli l’Italia di Azeglio Vicini perde ai rigori dall’Argentina di Maradona, che vola in finale. «Sì, ho giocato anche a pallone. Ma prima a tennis, che era la passione di mio padre. Avevo sei anni e non ero neanche male». A sei anni Fabio smette di essere figlio unico, e divide il suo mondo con un altro paio di occhi fondi, quelli del suo fratellino Matteo. «A quattordici anni ho cominciato a giocare a calcio nel Villacidro, facevo l’attaccante. La bici ce l’avevo sì, come tutti i bambini. Ai miei bastava che facessi sport, quale non aveva importanza».
IL MARE. Conta la scuola, e Fabio si iscrive al liceo classico. Quando ha qualche ora libera va in giro per le salite con papà Alessandro. «Avevo la mountain bike, ma all’inizio le salite non mi piacevano. Io sono un uomo di mare, è del mare che sento più forte la nostalgia adesso che non torno a casa più di venti, trenta giorni l’anno».
A un certo punto la fatica diventa passione. «Mi sono tesserato per l’Asd Piscina Irgas 3C, la mia prima squadra. E mi sono dedicato alla mountain bike e al ciclocross». Per fare le gare i sacrifici sono più che raddoppiati se devi partire dalla Sardegna. Fabio parte il venerdì sera in aereo, e vola fino a Bologna. «Andavo a casa di Andrea Cevenini, un gioielliere con la passione per il ciclocross. Era lui a portarmi in giro a correre, poi la domenica sera mi riaccompagnava all’aeroporto. Qualche volta tornavo addirittura il lunedì mattina, appena in tempo per presentarmi in classe». Bologna è la dimensione nuova, «prima correre era soltanto un divertimento, poi cominciai a inseguire il risultato». A gennaio del 2008 va con la nazionale di Mondiali di ciclocross a Treviso, a giugno è soltanto riserva ai Mondiali di mountain bike in Val di Sole, «fu un po’ una delusione», ma Fabio ha cominciato anche a correre su strada e a settembre quasi per caso arriva la svolta.
I PIANTI. Succede al Giro di Lunigiana, dove le tappe le vincono ragazzi con il nome famoso (Moreno Moser, del Trentino) e altri mai sentiti (Peter Sagan, della Slovacchia) ma Olivano Locatelli, ds della Palazzago ha una visione, «un ragazzino sgangherato con la maglia della Sardegna». Chiede informazioni in giro, ma gli dicono di lasciar perdere, «quello vuole correre sul fango, non sulla strada». Locatelli non ci può credere, così insiste. Gli danno un numero di telefono, ma è sbagliato. Ci mette quasi un anno a rintracciare Aru. Quando finalmente riesce a parlare con lui, Fabio deve fare la maturità classica, è l’unica cosa che i suoi hanno preteso da lui. Poi potrà dedicarsi allo sport come crede. Tre giorni dopo l’esame, Fabio Aru lascia la Sardegna e si trasferisce a Bergamo per correre con la squadra di Locatelli. «L’anno prossimo saranno dieci anni che sono lontano da casa. L’impatto è stato duro, le sere passate a piangere tante. Qualche volta ho anche pensato di mollare tutto, non lo nego. Ma è stato più difficile per i miei. Io man mano vedevo realizzarsi i miei sogni». A Bergamo Fabio vive con altri ragazzi del team, impara a lavorare, stendere, stirare, cucinare. Gli amici sono lontani, mamma Antonella è lontana, il mare è lontanissimo. «Adesso posso dire che ne è valsa la pena, ne parlavo due giorni fa con Valentina. Il ciclismo mi ha fatto incontrare anche lei, che è la donna della mia vita».
IL CUORE. Si sono visti la prima volta a Milano, a una cena di amici comuni, ma Valentina è piemontese di Avigliana. Dopo poche settimane vivevano già assieme, e hanno condiviso anche lunghi ritiri al Sestriere, bicicletta e salite, salite e bicicletta. Fabio guarda il profilo delle montagne e sembra quasi non crederci. «L’ho detto, sono un uomo di mare. Non sceglierei mai la montagna per una vacanza. Sono lontano da casa circa 230 giorni l’anno, e 80 li passo in altura. Poi è ovvio che ci sono posti a cui sono molto affezionato: il Sestriere, che mi ha accolto come un figlio nel 2014. E la “mia” Valle d’Aosta».
Da Under 23 Fabio vince due volte quella grande corsa a tappe, e comincia a capire quale potrà essere il suo futuro di campione. Firma con l’Astana per diventare professionista e il primo Giro lo corre nel 2013, prima di compiere 23 anni. Alle Tre Cime di Lavaredo, nella tappa vinta in mezzo a una tormenta di neve dal suo capitano Vincenzo Nibali, anche lui scalatore nato su un’isola, Fabio si piazza quinto battendo campioni conclamati.
I CAMPIONI. L’anno dopo è quello delle conferme. Il 25 maggio a Montecampione Aru vince la sua prima tappa al Giro d’Italia. «Lo so, la montagna di Pantani. Martinelli aveva insistito perché la provassi prima. C’eravamo andati, e io mi ero fatto una “ics” nella testa, mi ero segnato il punto perfetto per partire. Sono partito esattamente lì, e ho vinto. Pensa, non ci sono più tornato». Pochi giorni dopo sale per la prima volta sul podio di un grande giro: è il primo giugno, a Trieste, altra tappa del suo scoprirsi campione. L’anno dopo le tappe sono Jesolo, la prima maglia rosa, Cervinia, la seconda frazione rosa vinta nella «sua» Valle d’Aosta, e Sestriere, ancora una vittoria che vale il secondo posto al Giro di Contador e la maglia di miglior giovane. «Non riesco ancora a credere che ho dovuto saltare il Giro che partiva dalla Sardegna. Lo avevo aspettato tanto, è stata una delusione pazzesca. Evidentemente era destino che andasse così». Torna dopo tre anni con un curriculum pesante: tre podi nei grandi giri, due podi negli ultimi due Giri d’Italia più la Vuelta vinta. «No, io non mi ci metto fra i favoriti, non mi sembra elegante. Tre nomi? Dico Dumoulin, c’è una crono molto adatta a lui. Poi ci metto Froome. Terzo dico Pinot. Io sono contento del lavoro che ho fatto, mi manca ancora qualcosa ma è giusto che sia così perché dovrò essere al massimo fra qualche settimana: cioè alla fine del Giro, non all’inizio». E alla fine dovremo aggiornare la cartina e trovare altri nomi da aggiungere al giro del cuore. «Magari l’Etna, sono stato ad allenarmi in Sicilia e ho trovato molte cose della mia Sardegna. O forse Prato Nevoso, o Bardonecchia». Ma guardando il Giro sulla carta, ci sarà una tappa più affascinante delle altre? Ci sarà un punto dove Fabio Aru si è fatto una «ics» nella testa? Gli occhi grandi e scuri ridono, poi si fanno seri all’improvviso. «Lo Zoncolan. Sarebbe bellissimo».
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