In Italia sappiamo ancora in pochi come si scrive il suo cognome. Tutti sbagliamo la pronuncia. Qualcuno non sa neppure quale sport pratichi. Ma nonostante sia tutt’altro che popolarissimo, resta a pieno titolo il vero prototipo del campione straniero da portare al Giro. Casualmente, ne è anche l’ultimo vincitore, tanto per dire che comunque non sto parlando di un pisquano qualunque.
Mentre aspetto di vedere come finirà il pollaio nato su e attorno Froome (la mia idea è chiara e semplice sin dall’inizio: comunque, la sua presenza rovinerà il Giro), voglio proprio dedicarmi a qualcosa e qualcuno che certamente renderà onore e gloria all’amata corsa rosa, a Tom Dumoulin. Non ne voglio fare un mito sul niente. So benissimo che non è una simpatica canaglia, come tanta gente vuole nei suoi campioni di riferimento. Non è, direbbero gli strateghi dell’immagine, un personaggio che buchi gli schermi e rapisca i cuori. Per quello che ho visto l’anno scorso, non è neppure un carattere che possa tenere su una festa di addio al celibato. La persona si presenta discreta, tranquilla, però con un suo marcato garbo e una sua evidente serenità. Magari quando torna a casa chiude la porta e picchia la moglie, ma a occhio e croce sembra proprio un tipo equilibrato. Ha veramente tutti, ma proprio tutti i requisiti per non diventare eroe del suo tempo. Non è maledetto, non è stravagante, non è devastato da draghi tatuati. Non sembra avere neppure la fortuna sfacciata degli spacconi più sfrontati: nella tappa decisiva del Giro ha persino dovuto calarsi le braghe tra i prati, al cospetto dello ieratico Stelvio, che fino ad allora aveva visto una scena similare soltanto grazie a Ivan Basso.
Eppure bentornato vecchio Tom. Glielo dobbiamo proprio dire. E spero glielo diranno tutti, al suo passaggio. Questo olandese senza quarti di nobiltà è forse il campione che più di tutti, oggi, onora il Giro con una passione e un trasporto commoventi. Non torna perché deve allenarsi per il Tour. Non torna perché uno sponsor gliel’ha imposto. Non torna perché non sa che altro fare, e allora tanto vale correre una gara qualunque. Torna perché ci crede. Torna perché ci tiene. Vengo in Italia perché adoro l’Italia e perché adoro il Giro: questo, semplicemente, ha spiegato. E tanto mi basta. Non serve altro. Ogni parola in più suonerebbe melensa e ruffiana, molto simile a quelle che pronunciano regolarmente i suoi colleghi stranieri quando sbarcano controvoglia, magari con l’idea già chiara in mente di fermarsi al primo fondovalle alpino.
Per ripartire, per rilanciarsi del tutto, il Giro ha bisogno di tanti Dumoulin. Cioè campioni stranieri che scelgono il Giro volontariamente, lucidamente, appassionatamente. Poi magari Vegni verrà a dirmi che Tom ha preteso dieci milioni di euro per aderire, ma mi sembra molto difficile (anche perché, dovendo pagare qualcosa, i nostri pagherebbero Froome). Basta con gli stranieri convinti in ginocchio, gli stranieri in qualunque modo, anche in un modo impresentabile, soltanto per dire che il cast è prestigioso. È dall’epoca dei Lemond in gita enogastronomica che ho messo la croce su questo genere di presenze prestigiose. Cosa ce ne facciamo dei big stranieri che qui fanno i little. Meglio uno solo, ma buono e convinto. Uno come Dumoulin, che magari il Tour lo sogna quanto gli altri, ma che preferisce arrivare primo in Italia, non quarto o settimo in Francia. Il Tour magari lo vincerà, un giorno: ma con calma, a tempo debito, senza fretta. Soprattutto, senza sacrificare anni e anni di carriera nell’ossessiva rincorsa dell’impossibile illusione. Vengano i Dumoulin, con il loro carico di rispetto e di piacere. Convinti di ricevere prestigio in Italia, non solo di portarne.
Tra le altre cose, è pure campione del mondo a cronometro. E sceglie il Giro che meno di tutti, negli ultimi anni, gli offre questa leva tanto amata. Dunque un Giro per lui più rischioso, a livello tecnico. Eppure non ci sono ma, se, però. Zero tentennamenti. Tom non viene per fare un favore a noi: viene per fare un favore a se stesso, nel suo pieno interesse personale. Più di tante parole ipocrite, pronunciate a pappagallo, è questo in fondo che si intende per rispetto dell’Italia e del Giro d’Italia. Il piacere di sceglierlo. Il piacere di esserci. Non solo con le gambe: anche con la testa e con il cuore. Non mi vergogno a dirlo: se rivincerà lui, non riuscirò a essere deluso. Neppure se a perdere sarà Aru. Nel caso, avrà perso dal vero Avversario.
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