Non si riparano più biciclette a Napoli città, o giù di lì. Ha chiuso difatti ieri l’altro Salvatore Boemio, il popolare “ciclista” di via Antonino D’Antona, angolo via Bernardo Cavallino, Vomero Alto, zona Ospedaliera, per illuminarne anche extra-moenia, anche fuori del nostro habitat municipale, le coordinate.
Ha tirato giù la saracinesca di quella fucina di emozioni, al civico “54” di una preziosa e spartana bottega, un antro carbonaro di vulcanizzazione e tubolari, e solare però di illusione, come una foto di Coppi alla parete, lui, don Salvatore, la figura massiccia, appena incurvata dal lavoro, e il sorriso ironico dietro gli spessi occhiali da miope, la tuta blù da officina che non si usa più.
Lì ha chiamato uno ad uno, prima del congedo, i fedeli clienti amici che le bici le avevano ancora lì a deposito, noi compresi, per dire che andava via, che il tempo delle bici era scaduto, in città, lui ultimo Maestro Artigiano, quaranta anni dopo aver cominciato l’attività: per raggiunti limiti d’età, quasi 70 e nessun aiuto, e il figlio che fa altro, e per altro pure, forse.
Chiude l’ostello sacro per Napoli delle bici borghesi da due e forse tre generazioni di appassionati, da fanciulli diventati nonni, là dove sempre c’era lui pronto per una bucatura della Graziella di una figlia, una tirata ai freni della Mtb di tuo nipote, una verifica del cambio che saltava sul doppio plateaux per la tua bici da corsa incatenata al cuore, quella TI-Raleigh “Sirocco” di una altrimenti felice stagione agonistica, 1980: tu chiamali se vuoi capricci, o emozioni, di ogni età.
Chiude, in coda ad un ottobre che non sa affatto di stagione morta del ciclismo, di bici appese al chiodo, ma profuma all’inverso a Napoli di una impropria primavera: già, “prendi la bici e vai”, come si partisse metaforicamente in pieno autunno, anche quaggiù, per una Milano - Sanremo, o per il Trofeo Laigueglia di apertura, a febbraio.
Ma per il ciclismo antico e di sempre, da domani, qui, dove è sempre apparsa ambigua la voga illetterata delle bici con pedalata assistita o delle city bike del tycoon metro/napolitani, il tempo sarà scaduto inesorabilmente.
Senza la ciclosofia di don Salvatore, quella filosofia applicata alla vita secondo il ciclismo da lui dispensata fra una stretta di viti al mozzo e un ritocco alla sella, “troppo alta, la gamba deve girare, girare, girare sempre”, e una clausola personale non banale “ma è viva ancora tua madre?, guagliò, ma allora tu sì davvero ’nu miliardario”, qui la bandiera rosa del ciclismo, l’ultima biciclettina fucsia che aspetta lì, come un cucciolo randagio una padroncina, sembra davvero ammainata.
Via da noi Boemio, “torno a Marano”, riportate nei garage svogliati di casa le bici di ognuno - e chi saprà gonfiarci più le ruote di gas nobili il giusto?- , diventati grandi i figli e i nipoti, sembra davvero finito quel ciclismo amato. Come l’ultimo atto, chiamiamola pure tappa, di una struggente Boheme.
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