Caro Michele, come vorrei che tu fossi qui per aiutarmi a sopportare questo senso di vuoto che mi opprime. Mi basterebbe chiamarti, come facevo spesso, per poter discorrere qualche minuto con te del più e del meno; con la leggerezza che ti era propria.
Eravamo capaci di dire un’infinità di bischerate, un po’ su tutto. Si parlava seriamente del talento di Vincenzo Nibali, che ti mancava come pochi; si discorreva sulle potenzialità del “ragazzo”, Fabio Aru, che cresceva a vista d’occhio. “E per spiccare il volo chi meglio di me, che sono l’Aquila di Filottrano?”, mi dicevi tra l’orgoglioso e il divertito. Perché hai sempre avuto quel profondo senso di pudore a prenderti troppo sul serio. Non te la sei mai tirata e non hai mai messo il muso con chi non riconosceva in te il talento.
Non ho il physique du role, mi dicevi. “Non sono sufficientemente bello e alto, per guadagnarmi le attenzioni dei media”. “Per avere delle prime pagine forse dovrei farmi più amici tra i giornalisti: oppure fare semplicemente il giornalista”. E giù una risata delle tue, a cancellare tutto, anche quel poco di serio che avevi detto, che pensavi davvero e che era anche giusto che tu, anche per un attimo, pensassi.
Caro Michele, che tristezza vedere quelle immagini con Anna riversa disperata e inconsolabile sul tuo corpo immobile. Che pena provo a rivedere quelle ultime foto che hai postato poco prima di fare quella dannatissima ultima uscita in bicicletta. Che nostalgia la nostra ultima telefonata, sul calar della sera, in quel 21 aprile che diede i natali a Roma, quando da Trento ti stavi dirigendo felice verso Filottrano per poter riabbracciare Anna e i gemellini. “A 37 anni mi tocca fare anche la controfigura di Aru: ti rendi conto? Io, che vorrei solo evitare di fare brutte figure”.
E poi a raccontare come era andata la corsa, e il desiderio di uscire il mattino dopo il prima possibile, per tornare a casa e dedicare quel sabato a Anna e ai gemellini, visto che il giorno dopo eri ancora sul piede di partenza con la squadra per un nuovo ritiro, sull’Etna. “Mi porto avanti, quando arriverà la corsa, con Nibali e Quintana, io sono già lì. Mi basta uscire dalla camera e tagliare il traguardo. Chi se ne accorge?”.
Caro Michele eri uno spasso e sei stato per davvero un amico. Nel mondo del ciclismo, grazie al cielo, ne ho molti, ma tu eri uno dei miei punti di riferimento. Eri davvero speciale. Ci conoscevamo da una vita, e da una vita ci sentivamo per raccontarci di tutto. Ad ogni fine ritiro, quando scendevi da qualche montagna, mi chiamavi per raccontarmi come era andata. Come vedevi tizio e caio. Si parlava di ciclismo, ma anche della tua bella famiglia, dei bimbi, del cane, del pappagallo Frankie, di Mario Androni che eri andato a trovare e al quale avevi promesso di tornare un giorno per correre l’ultimo anno da professionista.
Mi davi l’impressione di avere le stimmate del direttore sportivo. Anche se tu non ci avevi ancora compiutamente pensato, perché ti consideravi a tutti gli effetti un corridore. Anche se l’amico Raimondo Scimone - giustamente - forse ti avrebbe voluto al proprio fianco, come osservatore di talenti, per la tua competenza e conoscenza del ciclismo, ma anche per quelle tue doti innate di PR, di uomo che sa tenere le relazioni, con semplicità e leggerezza.
Caro Michele, in momenti come questo vorrei dire tutto e niente. Spesso non so cosa sia meglio. Raccontare tutto il bene che c’è in te, o tacere. Io ho pensato solo di dedicarti una copertina, che ad Anna, ai tuoi genitori, ai tuoi bimbi, a quanti di te porteranno nel loro cuore il dolce ricordo del tuo passaggio terreno, penso e spero possa far piacere.
Caro Michele è anche il titolo di un libro che io ho letto da ragazzo. Un bellissimo romanzo scritto da Natalia Ginzburg. Una storia epistolare, fatta di assenze. Quel Michele non c’entra nulla con te, visto che è un ragazzo un po’ sbandato, molto apprezzato dal padre e molto poco dalla madre. In questa storia tutti respirano «niente altro che la propria solitudine». Quella che provo io adesso. Quella che provano quanti ti hanno amato. Caro Michele è un libro fatto di lettere, che rompono il silenzio: lanciando grida inutili di disperata, impotente ed egoistica desolazione. Il racconto si apre in un inverno del 1970, per chiudersi nell’estate del ’71. La tua storia è finita tragicamente e in un attimo - giusto il tempo di una tua folgorante battuta - in un caldo e assolato mattino di primavera che preannuncia l’arrivo di una nuova estate. Ma quel giorno dentro di me è calato improvvisamente l’inverno: e ora sento solo un acuto e crudele senso di freddo. E di solitudine.
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