In questo classico mese delle classiche viene naturale rimettere a posto un paio di cose basilari, alcuni principi costituzionali del ciclismo, per lunghi mesi avvolti nei fumi e nelle nebbie delle non meglio precisate riforme epocali. Una su tutte, almeno, l’articolo numero uno di tutte le riforme, vere, presunte, ipotetiche: anche perché, se non ci pensano i calendari e le valutazioni, ci penserà sempre la nostra passione a distinguere bene le corse vere dalle corse artificiali, inventate sui due piedi per allargare il mercato e aumentare gli incassi.
Onde evitare che qualcuno mescoli troppo le carte, risulta necessario stabilire che niente e nessuno finora è riuscito a scalfire, nemmeno con tutti gli sforzi, quelle che tutti conoscono come Corse Monumento. Hai voglia di modernizzare e di mondializzare, ma più modernizzi e più mondializzi, più ci accorgiamo che i capolavori classici della nostra galleria aumentano di valore e di fascino. Nonché di autentica ammirazione popolare. Come una filastrocca, potremmo ripeterle tutti in coro, senza possibilità di errori: Sanremo, Fiandre, Roubaix, Liegi, Lombardia.
Su queste cinque non ci piove. E non si discute. Sono la forza e la ricchezza, assieme a Giro e Tour, assieme al Mondiale, per parlare di cose serie e di campioni veri. Il resto è a discendere. Anche da inventare, certo: ma senza il trucco da imbonitori di equiparare subito il nuovo a quelle Griffe della storia. E non solo della storia, però: ci tengo a precisarlo otto volte. Queste cinque non sono patetici revival di ricordi passati, come raduni di reduci da El Alamein, secondo quanto raccontano certi seppiati dentro con la testa sempre rivolta all’indietro: queste cinque sono e restano anche le più belle e le più spettacolari, ciascuna con il suo specifico motivo tecnico, comunque a pieno titolo le migliori ancora oggi. La loro storia e il loro prestigio arrivano soltanto a ruota, di conseguenza. Prima, c’è sostanza.
Qualche parola, se mai, andrebbe aggiunta su altre occasioni che effettivamente si portano dietro storia e originalità tecnica niente male. Il discorso torna sempre fuori quando si parla di supercircuito, di superclassifica, di supercampionato aperto ai migliori, in cui davvero tutti siano obbligati a confrontarsi e in cui sia possibile stilare una classifica - con premio - finale, nella certezza che il primo sia davvero un primo, al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Da questo punto di vista, assieme alle cinque Signore potremmo piazzare un’altra cinquina di gare ugualmente favolose, per fare la cifra tonda di dieci distribuita dentro l’intera stagione. Ci metterei subito la Freccia Vallone, ci metterei ormai anche l’Amstel, ci metterei persino la Gand-Wevelgem, anche per non lasciare ai campioni veloci solo la Sanremo. Una, una sola, la andrei a pescare negli altri continenti, magari in America, magari in Australia, cioè nel nuovo mondo del ciclismo ormai diventato anch’esso piccolo mondo antico. Ne manca solo una, per fare dieci: il mio posto, senza se e senza ma, senza nemmeno un minuto di discussione, va di getto alle Strade Bianche, delle corse neonate quella diventata grande e grossa neanche l’avessero allevata ad estrogeni. Del nuovo che avanza, di questo calendario sempre più esotico e strano, casualmente la novità più bella è ancora qui da noi, nel cuore dell’Italia più verde e più bella, con sollecitazioni tecniche - lo sterrato - che vanno a completare il quadro delle opzioni agonistiche, accanto all’asfalto, al pavee belga, al pavee maxi della Roubaix, alle salite, alle discese, agli sprint.
Dall’indirizzo preso ai vertici del ciclismo, non ho la minima speranza che un giorno si arrivi al grande campionato delle dieci corse più vere. Vedo che cercano di appiattire e annacquare tutto quanto, per non distinguere più l’oro dalla farina gialla. Eppure un modo resterebbe anche a loro, ai piallatori della qualità e del valore: basterebbe giocare almeno sui punteggi, assegnandone di giganteschi in queste prove e di minuscoli nelle altre, così da creare nei fatti la classifica vera che non vogliono creare per regolamento. I pezzi grossi si concentrerebbero sulle prove più pesanti, i pesci piccoli cercherebbero le briciole in Polonia e in Malesia. Può darsi che le grandi riforme spadellate di questi tempi siano una sciccheria. Mai escluderlo. Sono pronto a ricredermi. Ma finchè un secondo posto al Fiandre o al Lombardia non varrà tre o quattro vittorie negli Emirati Arabi o in Argentina, ho i miei dubbi che andremo verso il meglio. Credo piuttosto che andremo verso il piatto, l’anonimo, l’insipido. In quello che di questi tempi, come la società, dovremmo chiamare ciclismo fluido.
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