PIANO C. L’argomento è già stato dibattuto più volte su tuttoBICI e tuttobiciweb.it. Anche un anno fa, in pieno Giro d’Italia. Ed è tornato di estrema attualità qualche settimana fa alla Clasica de Almeira, che molto probabilmente passerà alla storia come la gara in linea più breve della storia del ciclismo: solo 21 chilometri. Una mezz’oretta di gara a causa del fortissimo vento di burrasca che ha spazzato la costa spagnola e ha convinto gli organizzatori, dopo le proteste dei corridori e dei loro team-manager, a chiuderla lì. Fino a qualche tempo fa questo tipo di decisioni veniva presa dall’organizzatore in accordo con la direzione di corsa e il collegio di giuria, ora c’è l’Extreme Weather Protocol, un punto del regolamento Uci nuovo di zecca introdotto quest’anno su spinta dell’associazione medici e dei corridori, che prevede in caso di condizioni climatiche particolarmente avverse tutta una serie di provvedimenti che possono arrivare anche all’annullamento della corsa. Questo nuovo regolamento mette nero su bianco una serie di norme che fino a ieri erano suggerite solo e soltanto dal buonsenso. Se nevica e la strada è impraticabile, è chiaro che un organizzatore con un minimo di “grano salis” non rischia di finire nei pasticci per il gusto dello spettacolo. Ma è anche vero che un arrivo in quota, come quello sul Terminillo alla Tirreno di un anno fa o quello delle Tre Cime al Giro 2012, resta nell’immaginario degli sportivi e non solo nel loro.
La norma prevede diverse tipologie di ciclismo estremo a cui però viene posto un freno: pioggia torrenziale e grandine, accumuli di neve sulla strada, temperature estreme, scarsa visibilità e anche inquinamento atmosferico. Il tutto nel nome di un ciclismo più rispettoso della salute e dell’incolumità degli atleti: basta lavori forzati. Il nuovo protocollo cambia un bel po’ di cose, dando di fatto agli atleti un potere mai avuto prima d’ora. Il Giro è alle porte, non manca poi tanto, e a questo punto, oggi più di ieri, si cercherà di prevedere e prevenire questioni difficili in materia ambientale. Come di recente ha confermato lo stesso Mauro Vegni, direttore della corsa rosa, il buon senso è sempre stato usato, prevedendo un piano A ma anche un piano B. A maggio, su vette di oltre 2.500 metri è facile che si trovino neve e maltempo, ma oggi più di ieri è facile che corridori e squadre puntino i piedi se non sono garantite sicurezza e regolarità della corsa. Sarà quindi necessario, se non prevedere, almeno affidarsi in tutto e per tutto anche al piano C. Sì, proprio quello.
MERAVIGLIA. Resto in argomento di Extreme Weather Protocol e ribadisco un concetto già espresso qualche tempo fa: va benissimo lavorare per la sicurezza (ne sono stato anche ambasciatore e tutt’ora collaboro con l’amico Silvano Antonelli, autentico maestro in materia) ma senza perdere di vista l’essenza del ciclismo, che è racchiusa nella fatica e nell’epica del gesto atletico. Le tappe da tregenda, sotto la tempesta, contraddistinte da gelo polare o al limite della sopportazione per il grande caldo, hanno contribuito ad accrescere e costruire negli anni il mito dell’eroe della strada. Stiamo attenti quindi a non privare lo sportivo del fascino autentico e vero del nostro sport. Vediamo di non togliere pathos e “maraviglia” ad uno sport che non può e non deve diventare qualcosa di facilmente ripetibile e prevedibile. Uniformare, omologare le corse e la pratica di questo sport, che spinge l’uomo a superarsi sempre e comunque, sarebbe un grave errore. Oggi gli sportivi che seguono il ciclismo sono molto più praticanti di ieri. Sono sempre meno “poltronati” e sempre più connessi. Hanno scoperto «Strava», un social network sui cui condividere non foto ma le proprie performance, fatte di watt e numero di pedalate al minuto. In questo modo ci si misura con i tanti cicloamatori presenti sul globo e con quei professionisti che hanno scelto di far parte loro stessi dello sterminato mondo di «Strava», che non vuol dire stravaganti ma che in svedese significa letteralmente battersi. Oggi gli appassionati si battono e si confrontano con i loro beniamini e questi ultimi quindi hanno una responsabilità in più: dimostrare a chiunque che essere professionisti non è da tutti. Non è cosa così banale. Non deve e non può esserlo. È giusto che tutti si avvicinino alla bicicletta, ma le performance dei comuni mortali devono restare distanti da questa élite. Sia chiaro: se in una corsa viene a mancare il requisito minimo per la sicurezza, è giusto che il gruppo si fermi e metta piede a terra, ma se piove o tira vento, se la canicola scioglie l’asfalto e il sole spacca le pietre e cuoce la testa è lì che il corridore con qualcosa in più viene fuori. Il ciclismo è per tutti, guai però pensare che tutti possano fare tutto. Se i corridori professionisti cominciano a fare meno di chi li segue e cerca di emularli, sarà la fine. Vincere una tappa nella tempesta di neve sulle Tre Cime di Lavaredo deve restare una cosa da Nibali. Gli appassionati lascino pure le loro poltrone per inforcare le proprie biciclette, si mettano pure alla prova: a bocca spalancata provino pure a superarsi e a migliorarsi. Ma al passaggio di Nibali, Aru, Froome e compagnia pedalante che le loro bocche restino aperte: per la meraviglia.
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