Scripta manent
Io ricordo ancora...
di Gian Paolo Porreca

Abbiamo un regalo da chiedere, per questo Anno Nuovo. Abbiamo un sogno che desideriamo intensamente si avveri, per questo Anno Nuovo, sotto le stelle del ciclismo. Vorremmo ricominciare daccapo tutto, da dove eravamo partiti e da dove ci eravamo dispersi per traversie ostiche e sentieri indecifrabili.

Vorremmo ritrovare come medico di una squadra ciclistica, siamo ancora nel ’93, il dottor Walter Polini. Vorremmo che di fronte alla sua onesta gestione dell’allenamento e della preparazione, di chi si preoccupava della salute altrui e nel suo intimo «era medico già quando faceva il ciclista» (F. Moser), il team manager e il direttore sportivo di quella stessa squadra si convincessero alfine - sia pure dieci anni dopo, d’accordo, ma non è un’eternità - di quanto Polini, scomparso a Torino in una gelida domenica di divembre - predicasse il vero.

Vorremmo il franco, leale rimorso di chi a suo tempo, di fronte ad una scelta di campo tersa, di fronte alla denuncia di Polini della presenza nell’establishment di quella squadra di altri medici che avevano introdotto pratiche farmacologiche sospette, «un via vai di minifrigo...», pensò bene di esautorarlo. «Da lui non mi farei curare nemmeno un raffreddore...», come giustamente resta stampata nel ricordo dei giusti una boutade ingiusta. O con l’accusa formale, ancor più disdicevole, di incapacità professionale.


Vorremmo il franco, leale rimorso di chi semmai oggi è ancora alla guida di nuove generazioni di atleti, ed allora sfuggiva alla meritata sanzione punitiva solo per un vizio di forma: perché il doping percorreva e funestava il ciclismo in quegli anni ad una velocità ben superiore a quella dell’antidoping.

Di Walter Polini, personalmente, da certi brevi incontri telefonici di qualche anno dopo ricordiamo non le denunce, non ne aveva più in serbo, ma un dolente pudore e l’equilibrio. Forse anche il timore. Il timore fisico non per sé, ma per sua moglie, per sua figlia, per il rischio non sopito di ritorsioni. «Non ne voglio parlare più di quella storia e del ciclismo. Quelli sono potenti». Avrebbe fatto bene nel calcio, nell’Atalanta, da grande. Dove certo non avrebbero mai assunto a tempo pieno, come medico sociale, un medico incapace professionalmente. Nel calcio, da grande. Quando semmai ti aveva tradito la fantasia prima. Vorremmo che qualcuno chiedesse scusa a Polini. O ne dettasse un ricordo corretto. A male fatto.

Evorremmo ricominciare da capo, salutando Nicola Minali, il velocista di Isola della Scala due Parigi-Tours nella bacheca, e consecutive, che ha deciso di chiudere con il ciclismo. A 33 anni. Il suo gesto di commiato nell’ultima corsa, appunto una ennesima Parigi-Tours, il bacio sull’asfalto dell’Avenue Grammont come a ringraziare la strada che gli aveva reso la gloria, resta esemplare del ciclismo. Del suo spirito, della sua anima. Da centoduesimo all’arrivo, tagliandolo semmai da solo, sfilato dal plotone, il ciclismo e la propria storia in assoluto li si può interpretare certo da un’ottica privilegiata. Minali, da alcuni anni sporadiche apparizioni in primo piano, ma nel biennio ’95-96 protagonista di stagioni esaltanti, con vittorie al Tour, al Giro, alla Vuelta, operato per una patologia vascolare ostruttiva come tanti altri in quegli anni - gli stessi anni di sangue al veleno, denunciati dal dottor Polini, prima che da noi - merita da queste colonne un gesto di amicizia speciale. Da medico, da medico come il dottor Polini, che non sappiamo tra l’altro se Minali conobbe agli inizi della sua carriera, gli stringiamo più forte la mano. Per un segno di intesa. Per un ciclismo che ricominci daccapo, con la stessa convinzione comune. Con la stessa speranza ideale di tornare ad essere uno sport che non abbia più atleti come pazienti. E tantomeno come vittime.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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