L’addio della Rabobank al ciclismo professionistico, al di là delle garanzie di continuare a sostenere protagonisti come Marianne Vos e un movimento giovanile che in Olanda almeno non cede, è un motivo di attenta riflessione, per chi ha a cuore il ciclismo. E di profonda malinconia, per chi, come noi, ha sempre avuto a cuore il ciclismo olandese.
L’addio della Rabobank, 17 anni dopo una storia targata 1996, è molto di più del congedo di una formazione dal budget sontuoso, dalla organizzazione invidiabile, dai colori, per essere banali, inconfondibili... È invece la resa di una religione di popolo, come è il ciclismo in Olanda, al comandamento del doping obbligatorio nel ciclismo di oggi. “Obbligatorio”, sine qua non, o giù di lì.
Va via la Rabobank, vanno via le maglie blù-orange, ed è un effetto domino di ricordi. Nasceva sulla scia della Novell, ’96... Nasceva, meglio, nel solco della dicotomia fra Peter Post e Jan Raas che si era realizzata alla fine degli anni ’80, quando Post fondò la Panasonic e Raas, che di Post era stato il poulain, diede vita alla Kwantum Hallen...
Nascevano, tutti in verità, non solo tutti e due, dallo stipite della mitica e tanto cara Ti-Raleigh, che nell’83 aveva cessato di esistere.
E che era stata la fucina, o il tempo ortodosso, del ciclismo olandese maggiore. Kuiper, Knetemann, Karstens, Zoetemelk, Raas, appunto, come il più giovane....
Va via la Rabobank, che non sente di poter più affiancare il proprio nome e il proprio rilievo civile ed economico ad un milieu perdente, e irriconoscente pure, come il ciclismo degli ultimi anni.
E si porta via Michael Boogerd, Erik Dekker, Thomas Dekker, al di là dei contributi stranieri vittoriosi, da Oscar Freire a Denis Menchov, da Michael Rasmussen a Luis Leon Sanchez, classiche, Giro, Vuelta... E ci lascia, invece, i dubbi palesi sull’HumanPlasma affaire, made in Vienna, con il coinvolgimento di Boogerd, un ematocrito anomalo di Erik Dekker, in un Mondiale ’99 che ricordiamo a stento, e l’EPO di Thomas Dekker, neanche parente del primo. Tanto per limitarci agli olandesi.
«Chi volete che mi creda più?», come disse una volta Boogerd, dopo aver saputo della sua chiamata in causa nella storia HumanPlasma.
Già, chi volete che vi creda più, anche se la auto denigrazione è sempre ben accetta...
Via la Rabobank, con una ferita personale che non guarirà, ci incuriosisce però ricostruire, per la fede orange che ci appartiene, il via vai dei team manager.
Si cominciò appunto con Raas, nel ’96. E poi, ex abrupto, chissà perché, Jan Raas fu rimpiazzato da Theo de Rooy, nel 2003. E poi de Rooy fu mandato via, nel 2007, per omesso controllo nella storia grigia di Rasmussen. Per arrivare a confessare, poi, nel 2010, che il team in qualche modo “tollerava” il doping al suo interno, un po’ pilatescamente.
Ed infine, nel 2012, come a cercare di tranciare ancora più chirurgicamente la continuità con il passato, via anche il prediletto Eric Breukink e l’inossidabile Adri van Houwelingen. Per consegnare il ruolo di manager ad Harold Knebel, un tedesco, non più un olandese, quasi una resa... Era l’incipit di quel che sarebbe accaduto poco dopo, in questi giorni, appunto, con la dichiarazione franca di Bert Bruggink, il direttore finanziario di quella che resta la più importante banca nazionale dei Paesi Bassi: “la fiducia se ne è andata...”.
E ci viene da sorridere, pensando al primo dei direttori sportivi mandati via, quel Raas che l’8 novembre compirà, fra l’altro, 60 anni. Jan Raas, al di là del suo corredo di vittorie, noi lo ricordiamo oggi, in questo degrado planetario e nel congedo olandese, per una piccola lezione di etica. Lo ricordiamo, e ne offriamo la riflessione ai nostri lettori, per un gesto forte, sul versante della morale sportiva. Quando, un paio di anni prima, da direttore sportivo della Buckler, aveva licenziato in tronco un suo atleta, Ludo de Keulenaer, perché sorpreso con farmaci, o in pratiche, dopanti. Lo applaudiamo, timidamente, ancora.
Già, ma era la Buckler, birra analcoolica, non ancora la Rabobank, mega-istituto finanziario.
E poi, fondamentalmente, 1992, come quel Raas troppo poco moderno potrebbe sottoscrivere, erano davvero altri tempi ed un altro, forse migliore, ciclismo.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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