Domani, domenica 26 agosto, saremo nuovamente di guardia in Ospedale. Non saremo in bici, d’altra parte la bici per noi - salvo che nei brevi giorni estivi di Ischia - è diventato un accessorio leggendario. “State così bene, alla vostra età, grazie alla bici, vero?”. Già, Capricorno del gennaio 1950...
Questa ultima domenica di agosto certe volte ce la riservavamo giusto appunto di guardia, una libertà condizionata, a fianco della Rianimazione, allo scopo di evitare il ricatto familiare della Giornata al Mare, drammaticamente sparsi al sole, e poter vedere così in TV - esorcizzate beninteso le urgenze e le aritmia... - il Campionato del Mondo di ciclismo. Quando era in calendario, di fatto, a fine estate, prima dello slittamento ad ottobre imposto dall’UCI. E di un successivo, ultimo riposizionamente al calare del mese di settembre, come sarà questo anno, domenica 23, a Valkenburg.
Eil tuo Mondiale vinto, caro Lance, il Mondiale di Oslo, ’93, pioveva anche attraverso la televisione, fu uno degli ultimi ascritti all’ultimo canonico week-end di agosto, ci sembra. Eri più ragazzo ancora di quel che era stato il belga Monserè del 1970, ed impietosamente allo sfortunato Jean Pierre rimuovesti anche il titolo (platonico) di più giovane campione del mondo del dopoguerra, con quel tuo trionfo eclatante, da cowboy: 21 anni, 9 mesi e 23 giorni...
La vita di ognuno, la tua come la nostra, uomini di sport e di medicina, uomini sul bilico della malattia più che della fantasia, acquisita ad ogni delusione a prezzo più alto, è andata come è andata. Ma ci avrebbe donato, come speranza esemplare, un tuo secondo Mondiale, quello corso proprio a Valkenburg, guarda caso, nel ’98.
Caro Lance, tornavi da una malattia devastante che non nominiamo più, per non sentirci di parte. Avevi ripreso a correre solo a febbraio, una Ruta del Sol, deluso deludente, quindicesimo...
Ricordiamo di un ritorno in fretta negli States, quella primavera, quando il Texas, e non la Spagna, era l’unico ranch tuo. Per il cuore, e per il corpo.
E poi quelle prime vittorie interlocutorie, la maglia della Us Postal, il Giro della Renania, il Giro del Lussemburgo. Stavi tornando suoi tuoi passi.
Quarto al Giro di Olanda, vinto da Rolf Sorensen; quarto alla Vuelta, vinta da Abraham Olano. Ed emblematicamente la cifra di questo tenace, pertinace ritorno alla ribalta da una patologia tanto grave sarebbero stati i tuoi successivi piazzamenti al Mondiale di Valkenburg, quell’anno.
Quarto nella cronometro, dietro Olano, Mauri e Gontchar. E quarto nella corsa in linea, dietro Camenzind, Van Petegem e Bartoli. Già, perfettamente quarto, al bordo del podio. Senza turbare l’Olimpo.
Caro Lance, ci chiediamo, all’ultima domenica di agosto del 2012, senza riuscire a pensare come dovremmo a Valkenburg, se forse non sarebbe stato meglio fermarsi tutti - tu per secondo, dietro la nostra passione - lì. Quarto. E felice di una vita ripresa a correre, a correre giustamente nel cuore.
Dal 1999 al 2005 avresti vinto sette Tour consecutivi, l’inverosimile nella storia del ciclismo, e suscitato la curiosità e l’antipatia, oltre alla ammirazione circospetta, del mondo intero.
E ieri l’altro, ossessionato da mille accuse avverse di doping, hai appena detto “basta. Voglio scendere da questa storia e da questa gloria minata”.
Caro Lance, domani montiamo per un altro turno di guardia, la nostra ennesima tappa di trasferimento, con una incertezza in più.
Noi, dalla vita nostra di tutti i giorni non possiamo scendere. Attendiamo sempre che arrivi il giorno. E chissà se ci aiuterà ancora a suggerire un traguardo il tuo braccialetto giallo “Livestrong”. Quello, non si può slacciare, deo gratias.
E forse era meglio, non solo per la Usada roboante e per i tuoi gregari diventati transfughi, restare nella vita trascorsa al massimo lealmente quarti.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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