E come ci suggeriva garbatamente Bruno Raschi, quando gli chiedevamo del ciclismo minuto qualcosa in più, “ma chi era Retvig?”, ad esempio, «sai, bisognerebbe chiederlo a Rino Negri, lui sì, che sa tutto...».
E come diceva Raschi, l’equilibrio fatto uomo di uno sport purtroppo rimasto nel guado dei sentimenti come il ciclismo, a Rino Negri dovremmo chiedere cosa in realtà vi è da pensare - al di là di quanto sciorinato da chi si identifica flaubertianamente, in scia a L’Equipe, con la corsa francese - di questa ultima edizione del Tour.
Vinta da Wiggins, primo inglese nella storia a riuscirvi, e secondo campione del mondo dell’inseguimento, si sa, a far sua la Grande Boucle, dopo Fausto Coppi.
A Rino Negri chiederemmo, innanzitutto, di rileggere insieme il fotoromanzo delle presenze inglesi al Tour. Vorremmo che ci accompagnasse non solo da Tommy Simpson, deja vu, tragedia sul Ventoux ’67 e prima maglia gialla inglese nel ’62, ma ancor prima da Brian Robinson, il primo inglese ad imporsi in una tappa al Tour de France, nel ’58, a Brest, dopo la squalifica di Arrigo Padovan, in volata....
E con lui rivedere i modesti approcci di quella Nazionale bianca, sbarcata sul continente, ultimi anni ’60, e puntualmente falcidiata in montagna e al sole: Metcalfe, Hill, West, il buon Barry Hoban, il pirata Michael Wright, il tenace Vic Denson, Alan Ramsbottom, un inseguitore rimasto scolpito nella memoria, di nome Norman Sheil, che non sarebbe diventato forte su strada come è oggi Bradley Wiggins... E poi uno scattista, Ken Laidlaw, che chissà perché rivediamo in un fermo immagine svettare per primo su un medio colle pirenaico, nel cuore di una lunga fuga, troppo generosa per andare a buon fine.
Ma dopo l’archivio romantico condiviso, disperso il long drink con i Teneri Sorrisi, e il pio passato da Giardino dei Finzi Contini, a Rino Negri che tutto sapeva, da Coppi in qua, e con profondità certosina, di questo Tour appena concluso, vorremmo chiedere - con tutta onestà - che cosa scriverebbe di un ciclismo che registra ancora, nel 2012, il caso di un atleta - Frank Schleck, stavolta - positivo all’antidoping per utilizzo di un diuretico: lo Xipamide, nello specifico...
Gesù, caro Rino, ma non ci bastava per un paio di vite piene la vergogna di Pedro Delgado e del Probenecid, al Tour dell’88, e la sua scandalosa assoluzione, con tanto di ribadita maglia gialla, nel nome del vizio di forma e della vanagloria spagnola, da Luis Puig al ministro Xavier Solana? Ma questo sport, e questo Tour, è popolato ancora da siffatti personaggi, che sono rimasti, non alle favole di Andersen per carità, ma all’uso del diuretico come sostanza mascherante, per celare altri farmaci o ben altre pratiche sofisticate, come l’auto-emotrasfusione?
Caro Rino, amico mio, ti ricordi quando sorridevamo insieme sconcertati, tu giornalista di lungo corso, io medico e appassionato di questo sport, per tanta cinica e spregiudicata idiozia? «Ma a cosa può mai servire per un ciclista un diuretico al Tour, nel mese di luglio, con il caldo che fa ? A fargli venire un collasso???».
Cosa dirti, ce ne rammaricavamo inutilmente già allora, ma abbiamo la conferma - sempre oltremodo sgradita - che troppo spesso i ciclisti si curano con terapie opposte al buon senso della scienza medica. Molti di loro sono speciali. In tutta, o nessuna, coscienza.
PS: Rino Negri, grande firma de La Gazzetta, scomparso l’anno scorso, è autore fra l’altro di «DOPING - La storia, gli atleti, come si combatte», ed. ASK, 1988, VARESE.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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