Radiografia di una crisi che tutti vedono e nessuno cita. Calo intorno al 25 per cento dei soldi che gli sponsor riversano nelle squadre: dai 75 milioni di euro della scorsa stagione ai 57 per l’attuale. Una fatica mortale a richiamare il pubblico direttamente sugli avvenimenti. In passato, almeno, si diceva che la gente si era spostata tutta davanti alla televisione. Ora non regge più neanche questa: fanno una fatica mortale anche a vendere gli abbonamenti tv. La perla più bella: una delle squadre più importanti reca scritto sulle maglie uno slogan molto poetico, lo stanno persino presentando come un geniale colpo di immagine, se non fosse che nasconde la penosa verità: al momento, questa squadra importantissima non ha ancora trovato un cane disposto a sponsorizzare con cifre decorose la sua luminosa missione. Sembrerà strano, ma tutto questo cupo affresco non riguarda - per una volta - il ciclismo. Parlo del calcio italiano, primo sport nazionale. E per la cronaca la squadra che s’è scritta “Il calcio è divertimento” sul petto si chiama Fiorentina. I padroni Della Valle, come sempre illuminati e romantici, sostengono che lo slogan servirà a stemperare il clima. E come no: stemperano il clima, ma resta qualche pezza sul sedere.
Non ho la minima intenzione di avventurarmi nell’analisi delle cause e nella ricerca delle soluzioni di questo grave malanno (per decoro, ometto il disastro dei bilanci, che già sta portando a uno sterminio di società più o meno storiche del Paese). Non ne ho voglia e soprattutto non ne ho i titoli. Devo dire che neppure loro, gli astuti manager del grande calcio, mi sembrano fertilissimi in tema di soluzioni: l’unica cosa che sanno ripetere, come un disco a gettone, è quella ormai consumata degli stadi nuovi, e chi non lo sa, “per risollevarci lasciateci fare lo stadio di proprietà”, come se uno stadio nuovo all’improvviso risanasse anche la loro avidità, la loro miopia, la loro pochezza. E comunque: buona fortuna. Hanno una grande necessità di sinceri auguri. Che si facciano lo stadio nuovo e tornino a sguazzare nell’opulenza degli anni d’oro. Sempre che ne siano capaci. Io parlo di loro solo per parlare - almeno una volta - di noi, del ciclismo, in termini un po’ meno deprimenti del solito.
Intendiamoci: non è che guardando qualcuno in agonia noi che siamo malatissimi dobbiamo subito sentirci dei draghi. Non è questo il discorso. Noi dobbiamo guardare nel nostro piatto e tirare le nostre conclusioni. Punto. Il confronto, se mai, serve a rendere un po’ meno tragiche e pessimistiche le considerazioni sulla crisi nostra, che ancora c’è, ma che in qualche modo stiamo tutti gestendo con il giusto senso di preoccupazione. Mentre il calcio affonda ballando sul Titanic, nel ciclismo quanto meno nessuno balla più. Tutti hanno capito che aria tira, già da tempo sentono l’umido dell’acqua alle caviglie, e quanto meno evitano inutili sbruffonate e allegre festicciole di clan. È questo, soprattutto, che lascia sperare: rispetto a dieci anni fa, quando le prime bufere di doping trovavano gente dell’ambiente impegnata soltanto a riderne, convinta che si dovesse solo aspettare il veloce passaggio del temporale, adesso si può effettivamente parlare di responsabile coscienza collettiva. Certo, per qualcuno i termini “responsabile” e “coscienza” suonano sempre stranieri, ma si tratta degli inguaribili. Ogni famiglia ne ha e deve sopportarseli. Ovviamente si parla del clima generale, non delle pecore nere.
Nel domani più vicino, possiamo vedere consolanti barlumi di serietà. I team, vecchi e nuovi, ormai si stanno strutturando con organici ad alta professionalità, partendo dai tecnici per arrivare all’ultimo autista. Gli investimenti sono ragguardevoli, cinque, otto, dieci milioni a stagione. Soprattutto, al punto uno di qualunque programma c’è “guai a chi sgarra”: sarà pure un modo di dire, ma è molto bello che finalmente risuoni come un dogma. Le grandi aziende non sono più disposte a giocarsi la faccia per le porcherie di qualche idiota. Questo non elimina dal mercato l’idiota, ma fa sì che quanto meno i tecnici, i medici, i massaggiatori, le stesse famiglie comincino a realizzare la grossa novità: il lavoro dello sport, a certi livelli, è delicato, importante, rigoroso. Siamo alla semina, abbiamo appena cominciato: ma già vedere che antichi team manager, maestri di arrangiamento chimico e amministrativo, si sono trasformati in rigidi Torquemada della gestione autorizza un concreto ottimismo.
Se devo essere sincero, le sacche di peggiore pessimismo che sopravvivono e anzi continuano a ingigantirsi nell’indifferenza generale, io continuo a vederle sotto. Dico sotto il movimento professionistico. Parlo dei settori giovanili, dove ancora è jungla, con un sacco di belve a piede libero. E parlo soprattutto del settore amatoriale, che si sublima in questa febbre letale delle gran fondo. Benissimo ha fatto il direttore Stagi, nel suo ultimo editoriale, a mettere in risalto lo scandalo della bellissima manifestazione dolomitica, capace di richiamare top-manager e reti televisive sulle strade più belle d’Italia, ma desolatamente vinta - e già dire “vinta” in una gran fondo a me fa girare l’anima - da un impresentabile. Caro direttore, siamo rimasti gli unici a notare queste cose. Pare che non interessino più a nessuno. Pare che tutti considerino anche questo genere di messinscene un grande successo di sport. Ma non facciamoci contagiare. Non lasciamoci deprimere. Continuiamo a ripeterci, a gridare lo scandalo, costi quel che costi. Possiamo passare da ottusi e compulsivi, non importa. Anche per Valverde siamo passati da ottusi e compulsivi, ma sappiamo com’è finita.
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