Mi scuso se insisto su una mia esperienza, chiedo venia per la mia presunzione, ma credo fortemente che quanto sto per scrivere, e che magari qualcuno va pure a leggere, possa suggerire almeno un atomo (o un attimo) di riflessione, il che di questi tempi non è poco. Mi riferisco al lavoro che felicemente mi è arrivato addosso (e anche dentro: cioè mi è arrivato al cuore, più ancora che alla testa) per la mostra di Novi Ligure, dedicata a Fausto Coppi mezzo secolo dopo la sua scomparsa e ospitata da quel Museo dei Campionissimi - l’altro è Girardengo, stessa terra fertilissima di campioni grandi dello sport, si pensi anche a Cuniolo nel ciclismo, a Baloncieri, Ferrari e Rivera nel calcio: una densità di classe e talento, per chilometro quadrato, che forse non ha eguali al mondo, misurare e calcolare per credere - che la mostra stessa, su cui mi hanno fatto l’onore di lasciarmi lavorare, operare, incidere, è destinata a connotare anche nel divenire prossimo venturo dell’istituzione.
L’esperienza riguarda la voglia forte (voglia matta, si potrebbe anche dire, ma l’aggettivo si presta ad equivoci) che sovente si ha di evidenziare l’uomo al di là, se necessario al disopra dello stesso campione. Questo accade dopo che si è creato un certo spessore di tempo fra le imprese del campione e il momento della nostra considerazione/valutazione. Del campione è stato detto, scritto, saputo e diffuso tutto, e anche più (oh la fantasia creativa del tifoso, e anche del giornalista...). Il divenire del suo sport dopo il suo occaso o la sua scomparsa anche precoce è servito per metterlo pienamente a fuoco, in certi casi per dimensionarlo rispetto agli osanna che accompagnarono il suo procedere giorno dopo giorno nella celebrità, in altri casi per ingrandirlo sempre più, alla luce di tempi nuovi con protagonisti non alla sua altezza. Pienamente definito e magari anche consumato dalle attenzioni e dagli spostamenti del suo monumento verso l’alto e il basso, verso destra e verso sinistra, il campione ad un certo punto assume una valenza, come dire?, museale. È così e amen. Gli storiografi potrebbero sentirsi dei disoccupati, dopo questo amen, e allora si danno da fare per continuare a risultare preziosi e se possibile indispensabili. Come? Indagando l’uomo e proponendolo insieme con il personaggio: sopra o sotto o di fianco, qualche volta in alternativa qualche altra in modo di far apparire l’uomo come complementare o supplementare al campione. Con tutto uno strascico di scoperte, di constatazioni a cui inizialmente non si pensava proprio...
L’operazione vale per un po’ tutte le celebrità. Biografie di divi e dive dello spettacolo raccontano di come il bipede adorato da tutto il mondo si metteva le dita nel naso anche quando era ormai grandicello, di come ruttava volgarissimamente già al secondo whisky, di come lui tradiva lei e lei tradiva lui, delle baby sitter dei figlioletti che lui artigliava e dei giardinieri messicani (se siamo in una villa di Hollywood) che lei concupiva, anche di quale orribile padre (madre) trattavasi. Sembra quasi che l’uomo, il fan, sentendosi in credito di affetti, di stima, di entusiasmi col personaggio, al quale tutto si è dato e tutto ha dato, voglia realizzare un po’ di questo credito, magari assoggettandosi parzialmente il personaggio stesso, dopo averlo elevato a idolo e padrone.
Con il campione dello sport no, niente di tutto questo. Non si fanno neppure le pulci a certe sue prestazioni che pure, quando vennero realizzate, lasciarono dei piccoli dubbi. Con Coppi poi si registra un niente più intenso di quello di chiunque altro. E attenzione: dicendo Coppi dico, diciamo uomo gracile di ossa e tutto sommato gracile di carattere e di gesti e di comportamenti, soggetto ad esagerazioni di segno contrario come tutti i timidi quando non vogliono apparire tali.
Eppure il Coppi uomo emerge sempre di più, sta addirittura a ruota di Bartali al quale la storia offrì occasioni enormi di grandezza umana, occasioni che peraltro lui colse con grande bravura e intanto grande umiltà, arrivando persino a nascondere il suo “lavoro” di partigiano pedalante e a non accettare il ruolo di salvatore della patria quando, con le sue vittorie di tappa al Tour 1948 e con la maglia gialla a Parigi, contribuì a sventare, dicono alcuni, una guerra civile in Italia, conseguente all’attentato a Palmiro Togliatti. Coppi ha preso rilievo per una sua funzione meno vistosamente storica, ma - il caso intitolato alla Dama Bianca - profonda come intervento nei riguardi del codice italiano, del maschilismo imperante. A distanza di tanti anni, cinquanta e passa, sembra che Coppi abbia messo il suo personaggio grandissimo al servizio di una causa epocale, che possiamo pure chiamare femminismo. Sia pure il femminismo in prima persona decisamente singolare incarnato nel suo nuovo (e secondo, e ultimo) amore femminile. A suo modo, un’altra Cuneo-Pinerolo.
Non so se sono riuscito a spiegare: lo spero perché un “sì” significherebbe anche che sono riuscito a spiegarmi nella mostra, che ho scritto pensando al Coppi uomo quanto al Campionissimo. Chi vuole può anche prendere queste righe come un mio tentativo di mettere le mani avanti, di scusarmi a priori e a posteriori presso gli ortodossi dello sport e basta. Non è così, ma mi rendo conto che non posso dimostrarlo. Amen.
ggggggg
Certo che questa faccenda del doping che è doping a Roma (Coni), doping ma non troppo a Losanna (Cio), niente doping a Madrid (poliziotti e magistrati), finirà per dividere gli albi d’oro delle gare a seconda della tipologia del vincitore: ma attenzione, tipologia chimico-giudiziaria, non atletica e tecnica. Ci sarà l’ex dopato, il sempre pulito, il sospettato ogni tanto, il sempre sospettato. Ci saranno vincitori di vario tipo, uno riconosciuto lì, l’altro riconosciuto là. E anche se il paragone non è esplicito e cristallino, mi sembra di leggere un po’, in questa distinzione fra gare che già riesco a immaginare, qualcosa di vagamente simile a quanto si apprende e si patisce “sfogliando” il pugilato di adesso: e cioè titoli mondiali della stessa categoria di peso differenziati da sigle diverse, a seconda degli enti che li promuovono, li riconoscono. Categorie di peso ormai di rilevanza inferiore rispetto alla categorie di sigle. Un pugile batte l’altro ma il battuto non perde nulla, visto che resta re nella geografia della sua sigla, semplicemente non gli è riuscita l’incursione in un altro territorio. Comunque si legga tutto ciò, è un bel casino. E sicuramente il ciclismo verrà penalizzato da distinzioni nuove, così come lo è il pugilato da sigle inventate in continuazione.
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