di Gian Paolo Porreca
Per stare meglio al Tour, da una vita intera o giù di lì, la TV quando è possibile mi piace vederla in campagna. In quella casa dell’infanzia e della giovinezza, beninteso, in uno di quei giorni feriali neutri, a metà settimana, o anche in quei week-end fortunati per la certezza beata della solitudine. Il paese, l’avrò citato altre volte, è Carano di Sessa Aurunca, provincia di Caserta. In quella stanza buia e fresca, dove sale l’umido di una cantina di tufo, e che d’estate costituisce l’unico refrigerio in una casa spasa al solleone...
Una stanza con il camino, un divano largo, dai comodi braccioli, un telefono verde che non suona mai... E mille raccolte di giornali, la Gazzetta doc, degli anni e/o del ciclismo migliore, il ciclismo al comando dello sport. I fogli grandi, la carta spessa, e le “4aperture4” sacre in prima pagina: Raschi, Negri, Ratti, Mura... Mi piace regalarmela ancora lì, una tappa del Tour, per apprezzarne un gusto speciale.
Mi è sembrato che l’altro giorno sul Ventoux, ad esempio, ci fossero ancora Haast e Jimenez, Pingeon e Gimondi, quel francese intellettuale di nome Anglade, lasciando stare Simpson e Poulidor, Mugnaini e Gabica.
Mi piace immaginare che Johnny Schleck corra ancora nella Bic, con Ocaña e Mintkiewicz, Aranzabal e Bellone. Che Andy e Frank, i suoi splendidi “boys” di oggi, non li preveda neppure, come gli anni a venire.
È un sapore speciale. Retrò. Che sa di Cocktail San Pellegrino, quello rosso rutilante primigenio, di Disco per l’Estate, di frenesia di vacanza, di Lisa dagli occhi blù o di una ragazzina col due pezzi neri che si chiamava Antonella e che non ci filava proprio....
Ma per quanti anni ancora sarà così, io, nome e cognome che scrive e firma qui sotto, classe ’50, Capricorno, molte illusioni cadute, professione responsabile, famiglia, lavoro, lavori, pazienti, solitudini... Per quante stagioni ancora potrà essere così - mi chiedo - ad ogni fine Tour, ad ogni agosto che si spalanca dinanzi come un baratro bianco.
La stanza buia e fresca dove sorbire una tappa del Tour. E rendermi conto che in fondo anche se non arrivano più i nostri, anche se non crediamo più nello sport che vediamo e ci spacciano, e ne abbiamo ben donde, questo rettangolo finito è pur sempre ancora un’oasi di buona sorte dove approdare. O almeno cercare ristoro.
Per quanti anni ancora? Sperando che non ci buttino via, in una malaugurata ansia di pulizia stagionale, i giornali rosa antico e le firme amate: ed a proposito, telecronisti di Raisport, ma ogni tanto un pensierino a Rino Negri lo rivolgete anche voi?
Il problema, lo sappiamo, è fuori. È uscire dal guscio protetto. È riprendere il ruolo e l’auto, e vedere che intorno alla campagna, vicino al piccolo paese contadino, vi è solo un edificare sregolato.
Che hanno buttato giù con la ruspa una deliziosa villetta a due piani, rosa antico come la Gazzetta doc, inizio ’900, perché i vecchi proprietari sono tutti morti e gli eredi andati via da qui, dal loro paese di un tempo, per metter mano ad un condominio estremo.
Che la campagna della giovinezza, che la geografia dell’idillio come era, non ha più testimoni. O che forse, drammaticamente, l’ultimo sono rimasto proprio io. Io che avevo una paura matta dei serpenti neri, quando mi chiamavo Everaert o Pintarelli, impegnandomi come un campione del Tour sul sentiero del ponte di legno. E che vorrei avere ancora l’audacia di un giro coraggioso sul primo tratto di strada che asfaltarono qui fuori, verso la Stazione Sessa A.-Roccamonfina, nel ’66. E lanciarmi in volata, tra Bruni e Van Aerde. O forse recitare Manzaneque - Fernando, ovviamente -, in una prode fuga solitaria, da caballero stanco. Con quel maledetto-benedetto futuro del quale tanto ci parlavano, lasciato dietro alle spalle.
Fuori tempo massimo. E fuori innanzitutto dal Tour nostro.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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