Una idea, che dopo avere visto le gare di ciclismo su strada ai Giochi di Pechino, ci è parsa meno folle di quanto potevamo pensare al momento (un bel po’ di tempo fa) in cui ci era brillata dentro: far gareggiare anche le donne nel prossimo Giro d’Italia, quello speciale dei cent’anni. Per onorare un ciclismo emergente nell’altra metà del cielo, per celebrare un progresso, per sintonizzare il mondo della bicicletta con quello del podismo e soprattutto con quello del triathlon, dove le donne ormai gareggiano idealmente a fianco degli uomini.
Pensiamo a stesse tappe, davvero (tanto la tendenza è quella di accorciarle sempre più), con partenza per le donne anticipata o differita. In fondo il campionato del mondo e la prova olimpica si disputano sullo stesso percorso, e nessuno ha niente da dire. E quanto al chilometraggio, le donne sono agili, leggere, sudano di meno, hanno il senso del ritmo anche in bicicletta, e insomma, come hanno provato in gare podistiche anche di 100 chilometri, alla fine rischiano persino di fare meglio sugli uomini, a parità di fatica teorica.
Ancor più bello sarebbe, pensiamo, addirittura fare partire tutti insieme, nella scia di Alfonsina Strada (non si tratta di un cognome d’arte) che si fece - agli albori degli anni Trenta - il Giro d’Italia con i maschi, finendo fuori tempo massimo come tanti uomini e però proseguendo sino alla fine da pioniera, da rompighiaccio, da apripista, a piacere. Ci rendiamo conto che nascerebbero problemi di ogni tipo, compreso quello legato al fatto che i maschietti fanno pipì in corsa, senza scendere di sella (ma forse anche le donne si comportano così: mancano testimonianze e studi in merito), ma pensiamo anche che l’occasione dei cent’anni può e deve permettere licenze ed esperimenti di ogni tipo, dentro i confini vastissimi di quello che sarà pur sempre un evento sportivo.
Regaliamo l’idea all’amico Angelo Zomegnan, sperando di non sentir dire che le donne hanno il loro Giro d’Italia: perché noi stiamo parlando di un Giro d’Italia vero, non di quella cosuccia di geografia misera, per le pedalatrici fatte rimbalzare da un paesucolo all’altro, che ogni anno pretende invano di farsi seguire e persino coccolare.
Pensiamo che le donne darebbero un qualche po’ di gentilezza alla corsa, renderebbero meno facile il doparsi (se persino la signorina che fa la tua stessa strada ti vede stravolto oppure troppo sicuro di te, può persino nascerti dentro un sentimento che si potrebbe anche chiamare vergogna), servirebbero al ciclismo per liberarsi dalla considerazione altrui, insieme ammirata e limitatrice, per cui trattasi soprattutto di fatica sporca, ferina. In fondo, se le donne fanno la stessa strada…
Sarebbe persino bello vedere un grosso e autorevole giornalista sportivo nella parte della bravissima Alessandra De Stefano, lui che all’arrivo intervista le donne come lei intervista gli uomini.
Sarebbe bello un Processo alla Tappa con dialoghi al maschile e al femminile sulla stessa fatica. E le immagini del ciclismo delle donne, anche e specialmente quelle da Pechino, hanno detto chiaro che si può essere bella ragazza (o bella signora, vedasi l’ormai cinquantenne francese Jeannie Longo), brava ciclista, ottima parlatrice, ludica esaminatrice di fatti tecnici e agonistici: il tutto dopo avere pedalato per un bel po’ di chilometri andando a tutta, come si dice nel gergo del ciclismo parlando di pedalatori impegnatissimi: cioè a tutta donna…
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