Non esprimo un’opinione, è solo una constatazione: dopo anni di architettura creativa, di trovate geniali e di logorroiche consultazioni, il ciclismo si ritrova esattamente al punto in cui si trovava tanto tempo fa, quando tutti decisero che andava svecchiato e rifondato.
Vado avanti con i semplici fatti. S’era detto, tanto tempo fa, che il ciclismo doveva salire di rango, copiando un po’ la Formula uno, un po’ la serie A, un po’ i circuiti tennistici. Copiando un po’ tutti. Grandi squadre, grandi corse, grandi cifre. Soprattutto, grandi dimensioni. Basta con la dimensione condominiale del Centro Europa, basta con il pollaio di casa, basta con gli orizzonti ristretti. Via, fuori, aprirsi al mondo: dall’America alla Cina, passando per l’Africa e l’Australia, tutti di corsa verso un ciclismo nuovo e diverso. Bello, ricco, famoso. Con un sacco di felicità per tutti.
Continuo ad evitare le opinioni personali. Resto alla cronaca e alla storia. Più o meno un decennio dopo, da quando cioè abbiamo tutti cominciato a montarci la testa e a scimmiottare chi non andava scimmiottato, abbiamo davanti questa fotografia. Il ciclismo non si è allargato, né tanto meno si è innalzato, sempre che non si voglia sostenere che svernare una volta ogni tanto in Malesia e in Cina corrisponda ad un’esplosione di popolarità e di fatturato. Il mercato, in realtà, è sempre lo stesso. Così come sempre le stesse, per mole e per numero, per nazionalità e per finanziatori, sono le squadre. Quanto alle corse, non ne parliamo. Si pensava di togliere peso al Tour e al Giro, di comprimere e selezionare le grandi classiche europee, per lanciare via satellite il grande Giro di Birmania, della Tanzania, del Guatemala, della Turchia e della Mongolia. Qualcuno aveva molto a cuore il Giro delle Mauritius e delle Seychelles, ma forse per motivi suoi. Invece.
Non è un punto di vista personale, resto fermo alla fotografia oggettiva: riguardandolo adesso, dopo le rivoluzioni moderniste, il ciclismo si presenta come uno sport disperatamente aggrappato a poche cose buone. Il Tour, il Giro, la Sanremo, le classiche del Nord, il Mondiale e il Lombardia. Più qualche corsa di mezza caratura che serve per allenare e svezzare. Punto. E l’auspicio generale è che Dio conservi ancora a lungo questo patrimonio. Almeno questo.
Sempre restando ai fatti, senza la minima contaminazione di opinioni faziose. Nessuno può negarlo: osservandolo bene, il ciclismo di oggi e del futuro assomiglia maledettamente al ciclismo di allora. Di ieri e dell’altro ieri, di quando improvvisamente quattro megalomani si sono svegliati una mattina e hanno deciso che bisognava rifare tutto. Più nuovo e più bello. Più wow. Allora, prima dei colpi di genio, aspettavamo la Sanremo, poi le classiche del Nord, quindi il Giro, quindi il Tour, quindi il Mondiale, per ritrovarci tutti a chiudere con il Lombardia. Qualcuno mi dica se adesso, dopo tanta genialoide creatività, ci troviamo davanti qualcosa di diverso. Se davvero il ciclismo è diventato come la Formula uno, come la pesca sportiva o come diavolo pensavano i cervelloni del cambiamento. Dopo anni di demenza (qui, lo ammetto, sono al commento personale) siamo tali e quali a prima, con qualche cicatrice in più per i noti motivi. Dal mio personalissimo punto di vista, non è poi così male: certe corse amavo allora, le stesse corse amo adesso. Me lo tengo stretto, questo nuovo ciclismo emerso dalle riforme planetarie. Ha un sapore buono, mi ricorda qualcosa di familiare. Niente da ridire, nessun rimpianto, da parte mia. Qualche domanda, invece, dovrebbero porsi quelli che progettavano in grande: dieci anni dopo, si ritrovano al punto di partenza. Anche peggio. Nonostante tutto il loro lavoro di innovazione e di cambiamento. Se la pongano, qualche domanda. Se poi hanno anche qualche risposta, ce la facciano sapere.
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