Gatti & Misfatti
di Cristiano Gatti

Sbocciata la primavera, sono ricomparsi come le margherite. Saltano fuori da tutte le parti. Se ne vedono di tutti i colori. Famiglie in mountain-bike lungo i fiumi, manipoli di tardoni già pronti per la salita lunga, rigorosamente su titanio e carbonio (l’alluminio, a questa gente, ormai fa schifo). E soprattutto tante donne. È la bella gente del ciclismo praticato e militante. Sempre più bel­la, sempre più numerosa. Purtroppo, si segnala solo un preoccupante vuoto di ragazzini, nettissima minoranza sul numero generale: anche a loro la bici piace sempre, ma non si trova più in giro un genitore sano di mente che si assuma il rischio suicida di mandarli sul­le nostre strade, sovraffollate di mezzi killer. Da qui, un mio vecchio credo: il ciclismo soffre molto più di traffico che di do­ping. E non vedo come le de­magogiche campagne per le piste ciclabili, sventolate so­prattutto in campagna elettorale, possano realmente tamponare la crisi di vocazioni giovanili. Il problema delle piste ciclabili è uno solo: le disegnano cervelloni che non sono mai saliti su una bicicletta. Basta percorrerle, per comprenderlo. Aggiun­gi­ci che solitamente questi stessi cervelloni non progettano te­nendo presente le esigenze del ciclista, ma l’affare da concludere, ed ecco spiegato perché la politica delle piste ciclabili in Italia è attualmente una comica nazionale.

Torniamo però a questa moltitudine di attivisti ciclisti che sta nuovamente invadendo il Paese, al Nord e ultimamente sempre di più anche al Sud. L’età media è sempre sopra i trent’anni, l’età in cui si lasciano i giochi e gli sport di destrezza per pensare a qualcosa di più salutare e di più profondo, come il benessere fisico, il silenzio, gli spazi liberi. L’età - anche - in cui si ha l’età per affrontare i rischi della strada, magari lasciando a casa due righe di testamento.

Il fenomeno si rafforza ogni anno di più: la pratica dello sport ciclismo è in pauroso aumento. Para­dos­salmente au­menta in modo inversamente proporzionale alla popolarità del ciclismo professionistico, inteso come spettacolo popolare. Mi chiedo come sia possibile una simile contraddizione. Mi chiedo e mi rispondo subito: è possibile, perché l’uso della bi­cicletta è talmente antico, naturale, spontaneo, divertente, da potersi permettere di non farsi trainare dai grandi campioni. La mia paura è una sola: che lentamente il ciclismo diventi come la pallavolo.

Come la pallavolo? Esat­ta­mente: come la pallavolo. Non c’è bisogno di entrare in un palazzetto con le bici e tirarsi la palla oltre la rete. Il ciclismo può diventare affine al volley in un modo molto più preoccupante: cioè diventare uno sport molto praticato, a livello capillare, ma poco seguito e tifato. La pallavolo, in Ita­lia, è questa: viene giocata ovunque, persino a scuola e sul­le spiagge, da giovani e anziani, uomini e donne, ma smuove cifre esigue come movimento professionistico. Cifre nettamente sproporzionate, in negativo, rispetto alla base della pra­tica diretta. Fanno eccezione i periodi dei boom olimpici, quando mezzo Paese tifa per i vari Zorzi delle varie epoche. Ma sono fenomeni che non fan­no testo: ogni quattro anni, di­ventiamo persino scamiciati ultrà della vela. Per dire come in questi casi non sia la sincera passione a prevalere, ma solo il bieco tifo di bandiera.

La strada che abbiamo intrapreso appare chiara: è boom di ciclisti per strada, è diffidenza e sospetto per il grande ciclismo su strada (per la pista, resta solo un bel funerale, alla faccia di Silvio Marti­nello che in modo anche un po’ spocchioso mi aveva garantito la rinascita entro Pechino: Pe­chino ormai è qui, la pista non so dove sia). Irreversibile, questo fenomeno? Che ne so. Ri­compare sempre il solito discorso: perché il grande ciclismo torni ad essere amato, deve tornare a farsi amare. Con facce pu­lite e gare divertenti. Con re­gole chiare. Con almeno due sta­gioni consecutive senza scandali e senza torte in faccia (al momento, non riusciamo a du­rare neanche due giorni). In al­tre parole, con quella grande riscossa morale che da dieci an­ni stiamo sognando, ma che an­cora nemmeno si intravede. Pe­rò mi fermo subito. Non ho la minima intenzione di far ripartire il solito disco. Per una vol­ta, per un mese, per un “Mi­sfatti”, mi sono preso una va­canza. Una pausa di serenità. Una boccata d’ossigeno. Con­tem­plando dalla mia bicicletta, mentre pedalo in una placida valle di montagna, quanta bella gente ancora ami questo strano arnese. Nonostante.
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