Niente Tour, niente doping, niente politiche federali. Anche se molto ci sarebbe da dire, stavolta mi prendo una pausa per liberare un po’ di sano livore personale. Devo dare sfogo allo sbocco di bile che ho avvertito qualche tempo fa, orecchiando per caso un servizio televisivo, se non ricordo male dentro il Tg1. Tema dell’inchiestina le ultime statistiche nazionali, che documentano come il calcio non sia più il primo sport praticato in Italia, ma il secondo: in testa, ora, il palestrismo (mi scuso per aver partorito questo neologismo sui due piedi, ma non me ne viene uno più sintetico).
Ovviamente l’astio non mi è nato per questo. Personalmente non potrei resistere più di dieci minuti al chiuso di una palestra, tra gente che si suda addosso, con lo sguardo proiettato al massimo su uno specchio, o fuori da una finestra. Mi sentirei molto criceto, dentro la sua ruota, dove si affanna senza arrivare mai da nessuna parte. Tutto questo comunque non mi impedisce di rispettare molto chi in palestra ci va, trovando salute, relax e persino ottime fidanzate (il sospetto che questo terzo obiettivo sia in realtà la prima motivazione - lo ammetto - mi accompagna da sempre). E comunque: sono un militante della bicicletta, dunque per evidenti motivi schierato con gli spazi aperti e con gli orizzonti liberi. Proprio per questo, lo sbocco di bile: è esploso quando il simpatico collega della Rai è passato a descrivere le percentuali degli altri sport praticati. In calo volley e basket, dice, mentre aumentano al 12 per cento quelli che ancora praticano il ciclismo.
Sono sincero, inutile usare eufemismi: per quell’ancora l’ho odiato. L’ho insultato. L’ho subito incasellato tra gli idioti professionali. Non ne faccio il nome solo perché ho porto attenzione al servizio quand’era già avviato, perdendomi così la didascalia con le generalità dell’autore. E comunque, anche se l’avessi letto, l’avrei rimosso. Non si può tenere nella propria memoria un simile tanghero.
Diranno in molti: questo è impazzito. Riferendosi a me, naturalmente. Penseranno che sto dando di matto per un semplice ancora, un banalissimo e insignificante avverbio della lingua italiana. Forse è vero. Forse sono impazzito. O forse semplicemente esagero. Ma chiedo almeno di ascoltare le mie brevissime - giuro, brevissime - motivazioni. Se qualcuno poi volesse sentirne di più articolate, sono pronto a fornirne di torrenziali, in un secondo tempo.
Allora: diciamo che la mia è una reazione d’orgoglio. Non di stupido orgoglio: dico quell’orgoglio che si scuote di fronte a una manifesta ingiustizia. Inutile spiegare perché quel tizio abbia aggiunto ancora alla sua frase. Avrebbe potuto dire «salgono al 12 per cento quelli che praticano il ciclismo». Punto. Oppure, volendo fare il giornalista serio, avrebbe dovuto, e sottolineo dovuto, perché questa è l’oggettiva realtà, dire «aumenta il numero di quelli che scoprono la bicicletta». La differenza è sostanziale. Diciamo che le due formulazioni stanno agli antipodi. Definirci quelli che ancora praticano il ciclismo, significa darci dei reduci, dei sopravvissuti, sostanzialmente dei poveri nostalgici, vagamente rinco. Mi sembra evidente come invece cambi l’immagine se si racconta di nuovi seguaci che scoprono la bicicletta: si racconta un movimento in espansione, per niente reduce e nostalgico, ma anzi giovane e aperto sul futuro.
Basta guardarsi in giro. Lungo le nostre vallate, dentro i sentieri dei boschi, vagando per agriturismi o per passi alpini. Soltanto un beota - o un giornalista Rai - può ignorare quel che sta succedendo. Lo dico senza autocompiacimenti e senza mistificazioni: la bicicletta - come pratica di base - sta vivendo un boom. Si incontrano sempre più spesso intere famiglie. Per non parlare di quelle belle signore, che ad un certo punto decidono di rimettersi un po’ in movimento e rifioriscono pedalando in mezzo ai prati.
Certo tutto questo può sfuggire agli impomatati giornalisti delle sedi televisive capitoline. Quelli, al massimo, contemplano il bel mondo del golf, o del tennis, gli ambienti che tra un cocktail e un happy-hour frequentano non tanto per sana igiene fisica, ma solitamente per moda o per convenienza. Certo il nostro simpatico amico, che si sorprende di vedere ancora gente obsoleta e antiquata sulle biciclette, fatica a comprendere. Però noi non possiamo accettare tutto. C’è un limite. Passi quando ci raccontano come lo sport dei drogati (grazie ai nostri colleghi del professionismo e delle gran fondo, più delle gran fondo che dei professionisti, lo siamo). Ma non deve passare quando un pisquano qualsiasi crede di fotografare il Paese mettendo il suo stupido snobismo davanti all’obiettivo. Noi non siamo quelli che ancora - poveretti, vecchi arnesi, fuori dal mondo - si ostinano a pedalare in bici. Siamo gente che ama uno sport sempre nuovo e sempre giovane, oggigiorno persino di moda. Se la buonanima non si offende, rispondiamo con la rabbia e l’orgoglio. Al diavolo, i sedentari e salottieri cronisti di maniera. Si informino. Provino a uscire, qualche volta, dal circolo Aniene. Scopriranno cose incredibili. E magari, prima o poi, col tempo, riusciranno persino a non dire bischerate.
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