Siamo sempre più convinti che i ciclisti possano fare molto, molto di più, per evitare il doping. Molto di più, ed in special modo quelli con lo status symbol di campione, pensiamo innanzitutto a Paolo Bettini e a Ivan Basso, in grado di proporre e condizionare opinione, dal loro ruolo di leader. Ben venga, per intenderci, la disponibilità formale e sottoscritta al test del Dna, in accordo a quel Codice Etico che non troviamo pleonastico, se richiesto da un giudice sportivo o ordinario: se non lo fanno gli altri sportivi delle discipline olimpiche, peggior figura per questi ultimi - basta sottolinearlo - e modello esemplare da parte dei ciclisti, d’altronde condannati per vocazione alla avanguardia di questo problema.
Si può fare di più, ripetiamo. Ed innanzitutto molto di più “utilmente” delle autobiografie a posteriori o delle confessioni, quelle sì moralistiche, a carriera finita. Non ne possiamo più, al di là della curiosità umana, di testimoni come Mentheour, Voet, Manzano, tutti attivi al di là del tempo massimo, si chiami vergogna Festina o scandalo Kelme, con il compianto dottor Rjickaert o il rutilante dottor Fuentes in cabina di regia. E non ne possiamo più, pensando all’ultimo caso, quello del danese Jesper Skibby, per un aspetto anche squisitamente sentimentale. Vogliamo dire per quanta sconfortante disillusione rivelazioni come queste possono addurre all’immaginario personale o collettivo del “ciclista” protagonista in questione. Chi era Skibby, e se lo resta ancora, dunque...
Skibby era il corridore danese che per decenni è stato lo spericolato ardimentoso, maglia Roland o TVM, ripreso in una discesa della Tirreno-Adriatico, verso Caserta o verso il litorale delle Marche non ricordiamo, della sigla di apertura così suggestiva delle trasmissioni di ciclismo della Rai: era, già così per concetto, un sinonimo di ardita leggiadria che faceva da ouverture alla cronaca. E sarebbe poi diventato per noi, in una ottica più letteraria, l’emblema di quanto di coraggio e di fatalità è iscritto nel Dna virtuoso dell’essere corridore ciclista, per gli esiti fisici drammatici patiti dalle sue cadute: sul Koppenberg, in un Fiandre, poi in una Vuelta, infine in Campionato del Mondo... Perché, ci chiedevamo testualmente nel ’96, Skibby corre ancora se gli hanno diagnosticato una lesione cerebrale tale da determinare una sindrome epilettica?
E ci rispondevamo, affettuosi, che togliere la bicicletta ad un ciclista è come sottrarre al medico il paziente. Già, che esistenza sarebbe...
Oggi, senza richiesta altrui di spiegazioni, Skibby sente l’esigenza intima, “per non sentirsi schiavo a vita di questo peso”, di testimoniare la sua frequentazione con il doping iniziata nel ’91 e culminata nel ’93 e a seguire con l’utilizzo di Epo.
«Perché le figlie ed i giovani possano imparare...».
Bene. Noi accettiamo, in amara buonafede, anche questa ennesima pagina di verifica negativa della storia del ciclismo e della storia nostra.
Ma ci verrebbe da chiedere a Skibby, vincitore di tappe alla Vuelta e al Tour, di un Giro di Olanda e di altre pregevoli corse in una carriera lunga quindici anni, se almeno fosse pulito quel suo successo al Giro d’Italia, a Tortona, nell’89. Non tanto per noi, sconfitti per abitudine negli affetti, ma almeno per Ghirotto, Vona ed Ugrumov, gli sconfitti di quello sprint di allora.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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