Roglic, il fedelissimo

di Francesca Monzone

 Il 2021 lo aveva immaginato in un modo completamente diverso. Doveva essere l’anno del suo riscatto al Tour de France, perché nel 2020 messo in discussione dal COVID la maglia gialla gli era sfuggita dalle mani. La colpa era stata del giovane Tadej Pogacar che nel penultimo giorno di corsa gli aveva portato via la vittoria.
Primoz Roglic in un attimo era diventato il corridore muto e inespressivo, che dentro di sé cercava di controllare battiti e respiri per non cadere nella di­sperazione: la vittoria alla Vuelta era stata la sua consolazione, ma non era quella la corsa che voleva. Così lo sloveno si immaginava nella sua mente un nuovo anno, percorreva con il pensiero le corse da affrontare, le aveva costruite e le aveva vissute fino al suo appuntamento, rinnovando quella promessa che si era fatto nel 2020.
Il 2021 però non si è iniziato nel mi­gliore dei modi: Roglic e la sua famiglia bloccati in quarantena a Tignes a causa del Covid.
«A inizio anno durante le nostre vacanze invernali a Tignes io e tutta la mia famiglia abbiamo contratto il Covid. Pper fortuna senza sintomi, ma questo intoppo mi ha costretto a rivedere su­bi­to il mio programma iniziale».
La stagione parte e si supera la prima difficoltà ma nessuno ancora sa che Ro­glic non vestirà la maglia gialla, non arriverà mai a Parigi in trionfo e allo stesso tempo nessuno immagina che sarà lui a conquistare l’oro nella crono alle Olim­piadi di Tokyo e a vincere per la terza volta la maglia rossa della Vuel­ta.
Primoz Roglic si presenta alla Parigi-Nizza carico di aspettative. Siamo a marzo e quella è una corsa che gli piace e che conosce. La domina e ne diventa presto il leader, ma il destino ancora una volta gli volta le spalle: nell’ultima tappa cade due volte, tutti lo attaccano, lui si ritrova solo e alla fine consegna la vittoria finale al tedesco Maximilian Schachmann.
«Do­bbiamo guardare avanti e prepararci per le prossime gare - aveva detto Ro­glic lo scorso 14 marzo -. Nella pri­ma caduta mi sono ferito alla spalla sinistra, poi ho commesso un altro er­rore e non sono mai riuscito a recuperare il ritardo sugli avversari».
Roglic non trova mai delle scuse, quando commette uno sbaglio lo ammette sempre.
«Ho dato tutto quello che avevo per vincere, ma è andata diversamente. Il mondo non si fermerà neanche questa volta, posso solo ripartire. Non biasimo Maximilian che mi ha attaccato: è una corsa in bicicletta, non siamo qui per essere educati. È lo sport. Ma io lo so che tornerò».
Roglic è il corridore che promette, con la consapevolezza di mantenere il proprio giuramento. È l’uomo che si affida alla sua Lorna nei momenti difficili, come è successo nel passato e come accade ancora una volta quando il Tour de France lo tradirà.
Siamo a fine giugno, la Grande Boucle è anticipata per far spazio alle Olim­pia­di. Roglic si è tenuto lontano dalle cor­se per due mesi: dopo aver vinto la Itzulia Basque Country è rimasto nell’ombra a lavorare, per costruire l’assalto a quel Tour ri­masto in sospeso.
«Io e Pogacar non siamo gli unici possibili vincitori della corsa - di­chiara a Brest alla vigilia della partenza -. Ci sono anche altri corridori che possono dire la loro e che non vanno sottovalutati. Tra me e Tadej c’è rispetto e questa rivalità è una cosa che piace ai giornalisti».
Le cose però non vanno come il capitano della Jumbo Visma vorrebbe. Un destino contrario si scaglia nuovamente su di lui, cade nella prima settimana di corsa, il 50 per cento del suo corpo è medicato e coperto da bende. Prova a ri­salire in bici perché quel Tour è im­portante, ma non riesce ad andare co­me vorrebbe, i dolori sono forti. Fatica a riposare e ogni volta che sale in bici  le sofferenze sono insopportabili. È un calvario autentico: la squadra e il corridore capiscono che così non si può an­dare avanti. Non ci sarà una vittoria e neanche una conclusione a Parigi. Sulle Alpi, a Tignes, in quel luogo per lui così familiare, Primoz scende dalla sua bici. Non sale nemmeno sul pullman della squadra e rimane su una sedia in attesa. Aspetta la sua Lorna con il fi­glioletto Lev e il loro camper. La famiglia è unita ed è da qui che lo sloveno dallo sguardo impenetrabile riprende la sua strada.
Il lavoro è duro e sempre silenzioso, il campione ricostruisce ogni parte del suo corpo e fortifica la sua mente perché, se il Tour de France è saltato, ci sono le Olimpiadi, un obiettivo importante, che arriva ogni quattro anni.
Fino a una settimana prima della sua partenza, Roglic non sapeva se sarebbe andato a Tokyo, ma il suo Paese lo vuole ai Giochi, tutti sanno che avere Roglic e Pogacar vuol dire correre per una medaglia. Non sbagliano, gli sloveni: Tadej vince il bronzo nella prova su strada e Primoz conquista l’oro nella cronometro.
«Quella medaglia è pesante e molto bella. Sono molto orgoglioso di quel ri­sultato, perché arrivato a ripagare tutte le mie fatiche. Inizialmente non mi ero reso conto di quello che avevo realizzato. Sono andato a Tokyo con la serenità di chi non ha niente da perdere e questo in un certo senso mi ha caricato. Ho pensato solo a guardare la strada che avevo davanti, senza riferimenti, senza cercare altro. Solo quando sono arrivato al traguardo mi hanno detto quanto fossi stato veloce e che quella me­da­glia d’oro era la mia».
E con la mente ritorna ai giorni difficili del recupero, quelli dopo la caduta.
«Non ero sicuro di partire. Una settimana prima della gara, tutto era ancora incerto perché non riuscivo ancora a guidare la bici come volevo. All’ultimo minuto poi ho detto che avrei provato a fare del mio meglio. Partivo dal presupposto che se non avessi provato a correre, non avrei avuto nessuna op­portunità».
Roglic diventa il nuovo campione olimpico: alle sue spalle ci sono il compagno di squadra Tom Dumoulin e l’australiano Rohan Dennis. Primoz è andato a Tokyo consapevole che la prova su strada non sarebbe stata alla sua portata, ma quei giri intorno al monte Fuji lo hanno aiutato a preparare la prova a cronometro. Molti alla vi­gilia avanzavano dubbi su un suo possibile risultato, ma Roglic è un campione che sa rinascere: si è rialzato, andando a conquistare una delle vittorie più importanti della sua carriera. Primoz ha fatto la storia sportiva della Slovenia non una ma tante volte, contribuendo a far crescere il numero degli appassionati nel suo Paese. L’anno scorso è stato il primo sloveno a indossare la maglia gialla al Tour de France, lo aveva fatto durante la nona tappa, portandola con orgoglio fino alla ventesima, quando al termine di un duro duello era passata sulle spalle di Pogacar, e nel 2021 è stato il primo campione olimpico nel ciclismo per la Slovenia.
Non ha avuto però molto tempo per festeggiare, perché davanti a lui c’era l’appuntamento del nuovo riscatto.
«Adesso tocca alla Vuelta - aveva detto il campione olimpico appena arrivato a Burgos -. Questo è il mio prossimo obiettivo, una nuova sfida nella quale cercherò ancora di dare il mio massimo».
Roglic corre la Vuelta e domina la cor­sa dall’inizio alla fine. Nessuno dei suoi rivali è in grado di ostacolare la sua cavalcata vincente verso San­tiago de Com­postela. Questa è la Vuelta del­le cattedrali, nella quale la Spagna ha voluto ricordare tutti i suoi figli che hanno perso la vita a causa del Covid. La corsa rappresenta il capolavoro di Roglic: prende subito la maglia rossa e la cede solo per pochi giorni, con una attenta gestione degli sforzi, ma la riconquista nella diciassettesima tappa per portarla fino al traguardo di una corsa che non è mai stata in discussione, che è sempre stata sua.
«Bisogna essere felici e in questa Vuel­ta sono stato molto contento, ho sfruttato ogni occasione. Conserverò i ricordi di questa gara per il resto della mia vita. Avrei preferito che il Tour non finisse per me in quel modo, ma sono riuscito ad andare avanti ancora una volta, con il supporto di mia moglie e dei miei cari».
Roglic ha vinto, la stagione è finita ma ci sono dei momenti che meritano un’attenta analisi. Il campione sloveno ha vinto tanto, è giustamente soddisfatto ma continua ad avere il tarlo di un Tour che non è andato come voleva.
«Con la vittoria alla Vuelta ho voltato pagina. È un qualcosa che probabilmente mi riesce più facile che agli altri. Sono fortunato ad essere così, a non dispiacermi per me stesso e a non piangermi addosso. Ho vinto la Vuelta tre volte consecutive e mi piacerebbe non fermarmi, quindi probabilmente tornerò l’anno prossimo. Non si sa mai, non è ancora previsto nulla, ma lo spe­ro veramente».
Roglic va avanti non solo come corridore ma anche come uomo: attraverso la fondazione che porta il suo nome riesce a fare del bene. La sua storia di rinascita è diventata una fiaba, i cui proventi vengono utilizzati per progetti educativi e formativi rivolti ai giovani sportivi, in particolare ciclisti.
La sua storia illustrata si intitola Primoz in Bajk: gli elementi fiabeschi e biografici si uniscono e danno vita al racconto di un atleta che cade e si rialza perché vuole essere il migliore, un’avventura raccontata con uno stile umoristico arricchita da disegni che sta conquistando i bambini sloveni.
«So cosa vuol dire partire da zero. Quando ho deciso di diventare un ciclista, ho venduto la mia moto e chiesto soldi in prestito a mio padre e ho fatto anche due lavori per inseguire il mio sogno su due ruote».
Lo sloveno riparava scale mobili e vendeva lavatrici e asciugatrici. Si è comprato una buona bici e allenandosi duramente era riuscito ad arrivare all’Adria Mobil, squadra dalla quale è poi passato alla Jumbo Visma.
Con il team olandese il campione olimpico ha appena firmato un nuovo contratto con la sua squadra, che lo vincolerà fino al 2025: ha iniziato con la maglia giallonera il suo percorso nel World Tour, i dirigenti della Jumbo Visma hanno creduto per primi nelle sue capacità, accogliendo in squadra un corridore inesperto, i cui risultati più importanti fino a quel momento non erano arrivati con il ciclismo ma nel salto con gli sci.
«Sono cresciuto con questa squadra da quando sono arrivato nel 2016. Ab­biamo già una lunga storia insieme di cui sono molto orgoglioso. Ho fatto il mio debutto nel World Tour in età più avanzata rispetto agli altri. A qualcuno il mio cammino può sembrare facile perché i risultati sono arrivati presto, ma così non è stato. I risultati non so­no arrivati da soli e io non sono l’unico artefice di quanto è accaduto: se la mia crescita è stata veloce, è stato per merito dei miei compagni di squadra e dei nostri dirigenti. Sono contento di far parte di questo team con il quale vo­glio continuare il mio percorso di crescita, indipendentemente dai risultati che arriveranno».
Archiviato un altro anno di successi, sottolineati successi e cadute, Pri­moz è pronto ad affrontare un nuovo anno, con nuovi obiettivi da raggiungere, su tutti quella Grande Boucle con la quale lo sloveno ha un conto in sospeso.
«Il Tour de France è una grande corsa, ma non ne sono ossessionato. Certo che voglio vincerla, ma non voglio essere ricordato solo come il corridore che ha vinto o non ha vinto questa corsa. Preferisco essere visto come un combattente che ha fatto del suo meglio in ogni gara. Per me il Tour non è un’ossessione, quindi non mi dispiace non essere riuscito a vincerlo».
Ci sono il Tour de France e la Jumbo Visma, ci sono Primoz Roglic e Wout van Aert che corrono insieme e poi ci sono gli avversari. Il team olandese an­drà in Francia per conquistare più ma­glie, perché le possibilità ci sono e perché, come abbiamo visto quest’anno, i risultati alla Grande Boucle si possono ottenere anche quando lo sloveno non può correre.
«Possiamo ottenere sia la maglia gialla che quella verde, possiamo anche vincere anche la maglia a pois con Sepp Kuss. La squadra deve decidere quale sarà il nostro obiettivo principale al Tour, e quindi dobbiamo avere un piano che soddisfi tutti».
E ancora: «Posso vivere serenamente anche con un quarto, un quinto o un se­sto posto, se ho dato veramente il mio massimo. Ottenere una vittoria quando non sei veramente eccezionale, non è per me il massimo della soddisfazione. Ho imparato a guardare solo a me stesso e ciò che viene fatto dagli altri in nessun modo può influenzare le mie scelte e il mio modo di essere».
Il bambino che era abituato a misurare il tempo che da casa impiegava per ar­rivare alla fermata dell’autobus e a mi­gliorarlo, si è fatto uomo e campione ma vuol continuare a crescere, ad essere migliore. Sa che dopo ogni sconfitta c’è sempre una seconda possibilità, sa che la soddisfazione più grande è quella di aver fatto il massimo per raggiungere un obiettivo. Sa che il futuro...

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