Colbrelli, l'uomo delle pietre

di Pier Augusto Stagi

L’uomo della pioggia esce dal fango con una pietra tra le mani. Detta così può sembrare la cronaca di un condannato ai lavori forzati, anche se quei 260 chilometri lastricati di pavé sono stati davvero una condanna. L’uomo della pioggia esce dal fango con una pietra tra le mani e ha il sorriso di un bimbo felice, che sa di averla fatta grossa, di aver realizzato un sogno fanciullo. L’uo­mo della pioggia sporco di fango con una pietra tra le mani e un sorriso che illumina quella maschera di creta altro non è che Sonny Colbrelli.
Al ballo dei debuttanti è stato l’ospite d’onore, il più gradito e acclamato di tutti. Sonny ha ballato per tutto il giorno su quelle pietre carogna, con sicurezza e abilità, prima di gridare la sua gioia, mista allo stupore di aver vinto la regina delle classiche al primo colpo, al debutto in una corsa che spesso respinge anche i suoi re.
Sonny Colbrelli è una maschera di fan­go, ma è anche l’immagine della gioia, di quegli uomini che non hanno avuto tutto e subito, ma si sono costruiti un po’ per volta, con pazienza e umiltà: forse pure troppa. Ma questo trentunenne ragazzo bresciano, tosto e gentile è fatto così: prendere o lasciare. Non lo cambi più, anche se poi è cambiato, so­prattutto nella testa.
«Ho perso quasi tre chili quest’anno, ma non pensavo di potermi proporre su questi livelli. In passato, mi era capitato di scendere sotto i 72... ma a dir la verità non andavo avanti. Il peso non era tutto, ma era la testa forse a mancarmi…».
L’uomo della pioggia, così è chiamato in gruppo per le sue indubbie doti di equilibrista e resistenza quando le condizioni meteo diventano estreme, per anni è stato considerato l’eterno secondo… anche terzo. In carriera trentaquattro vittorie, ma trentanove sono i secondi posti.
«Mi dicevo: non ce la faccio, ma era solo un limite che mi creavo. Ho lavorato con una mental coach, Paola Pa­ga­ni. Questi incontri mi hanno molto aiutato e ora mi sento consapevole della mia forza».
Sonny Colbrelli si regala un’edizione memorabile (oltre che inedita per calendario) della classica del pavè, già dura di suo e resa infame da fango e dalla pioggia. Sei ore di battaglia, pri­ma dello sprint finale, dove piega la resistenza del 22enne belga Vermeesch (altro debuttante) e del grande favorito Van der Poel (debuttante anche lui, nonostante nel fango ci sia nato). Urla di gioia che sembrano uno straziante grido d’amore per uno sport che adora e che negli anni gli ha riservato anche tante amarezze.
È lui a cancellare il nostro digiuno che durava dal secolo scorso (Tafi, 1999, ndr) e consente al ciclismo azzurro di tornare a vincere una corsa monumento due anni e mezzo dopo il Fian­dre di Alberto Bettiol.
«È stata una corsa fantastica - ha raccontato ebbro di gioia il bresciano -, ho sempre corso davanti, ho attaccato a 90 km da Roubaix e poi nel finale ho sempre seguito Van der Poel sul pavè. E nel velodromo volevo stare alla sua ruo­ta, poi Vermeersch è partito e mi sono prontamente accodato, negli ultimi 30 metri l’ho saltato e ho vinto. È un sogno che si realizza, dopo anni di continua crescita», dice il signore di Roubaix, che finalmente si è tolto la maschera di fango e con il suo sorriso illumina la lunga serata di Roubaix, in un tramonto di struggente bellezza…  
Lo avevano chiamato Sonny, come il de­tective protagonista di Miami Vice, arrivato sulle tivù italiane alla fine degli anni Ottanta. A Casto, comunità montana della valle Sabbia, in provincia di Brescia, milleseicento abitanti, lui è il bambino con il nome da straniero e che ama solo correre, soprattutto con quella biciclettina regalatagli da nonna Ni­na con i punti del supermercato.
Aveva provato anche con gli sci - «Vincevo pure delle gare…» - ma quando vide la bicicletta non ci fu altro oggetto che potesse catturare la sua l’attenzione. Un’Ala rosso fuoco con la scritta gialla. Unico problema? La scuola. «Mi vergognavo, uscivo piangendo - racconta mamma Fiore -. Lui tutte le sere si preparava lo zaino, an­dava volentieri a scuola, poi però non studiava, non faceva i compiti, niente».
Per Sonny niente libri, solo corse in bi­cicletta, nonostante la vista non fosse delle migliori.
«C’è chi mi prendeva anche in giro, e diceva che ero ciccio, piuttosto grassoccio. Oggi direbbero che sono stato bullizzato, ma sappiamo bene tutti che i bimbi sanno essere delle vere carogne», dice lui.  
In verità mamma Fiore si sentì anche dire da un dirigente di società: «Dove vuole andare con questo maialetto?». Per Sonny la strada fu subito in salita, nessuno voleva prendere quel ragazzino con la vista scarsa e qualche chilo di troppo. Fu nonno Cesarino, il papà di Fiore, operaio in acciaieria come tutti i Colbrelli, a metterlo in sella e a portarlo alle corse. Sonny si divertiva, anche se non aveva il fisico da corridore e, an­che nel carattere, sembrava sempre che gli mancasse qualcosa: a un certo punto smetteva di pedalare. «Si perde dopo la linea, non prima», ripete all’infinito nonno Cesarino, morto quando Sonny era ancora dilettante.
«Però corro sempre con la sua foto nel taschino portaradio, anche alla Rou­baix era con me» confessa con un pizzico di emozione.
Il giovane Sonny ama Pantani e la mountain bike. Nel tempo libero va a pescare, come il suo idolo ciclistico. Ma quando non corre, lavora e da una mano alla famiglia, in particolar a papà Chicco: sveglia la mattina alle cinque, con il gelo e via a scaricare i camion di tubi... Non si è mai tirato indietro, la fatica non l’ha mai spaventato. Poi quando ha conosciuto Adelina, la sua vita è cambiata, in meglio. Con loro oggi ci sono Vittoria, che ha quasi tre anni e il carattere di Adelina, e To­ma­so, che non ha ancora un anno e mezzo ed è tutto suo padre.
Mamma Fiore assicura: «Sonny è cambiato quando ha smesso di essere soltanto un figlio ed è diventato un pa­dre». L’uomo delle pietre ha un cuore d’oro.

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