Un anno fa, la notte di un San Valentino senza cuore, moriva Marco Pantani. Ne leggerete in questo giornale, ne leggerete altrove. Ne parleranno, in democrazia, tanti. Noi siamo di quelli che, per pudore o per la sconfitta di un amore, non ne parlerebbero più. Dejà vu.
Ma c’è qui in lettere di stampa una domanda, coinvolgente, ineludibile, che merita una riflessione. Ed è la interrogazione retorica che si pone Johan Museeuw, il celebre campione belga incriminato, al commiato da una carriera ricca di trionfi, per consumo e traffico di sostanze dopanti maggiori, tipo Epo e Nesp. «Volete voi un secondo Pantani?», si chiede Museeuw, facendo riferimento all’attenzione dei media fiamminghi sul suo caso e alle rivelazioni della Procura di Courtrai sulle presunte sinistre connessioni con il veterinario Josè Landuyt ed i suoi affari doping in campo ciclistico, ippico ed addirittura ornitologico‚ colombofilo...
Sospeso dall’attività per due anni, anche se virtualmente, visto l’addio alle corse. Non invitato alla presentazione della sua ex-squadra, la Quick-Step 2005. Rimosso da ogni incarico ufficiale in seno alla Federazione ciclistica del suo paese. Delegittimato da Jacques Rogge, il suo connazionale medico e presidente del Cio, che si è dichiarato profondamente deluso dalle notizie in merito e lo ha catalogato, con Tyler Hamilton per intenderci, nella categoria dei non-campioni.
Queste, in un elenco aridamente senza verbo, le sanzioni-punizioni morali comminate ad Johan Museeuw, vincitore di tre Parigi-Roubaix, tre Giri delle Fiandre, una Parigi-Tours, un Campionato del Mondo.
«Volete voi un secondo Pantani, in questo paese? Al momento, mi sembra di essere trattato dai giornali come Marc Dutroux», facendo riferimento al riconosciuto serial killer e seviziatore di bambini, il cui caso creò un profondo sconvolgimento socio-politico in Belgio, negli anni Novanta.
“Un secondo Pantani...», ammonisce Museeuw. Beh, volesse il Dio del ciclismo che comparisse come un Beato Angelico in bici, ma ve lo ricordate il Tour ’98?, un altro Marco Pantani. Uno che sembrava averci redento il ciclismo da Virenque e dalla Festina, da Jan Ullrich e Biarne Rjis, dalle fughe in massa alla frontiera di TVM e medici italiani, dai commiati ignobili della Riso Scotti, della Once e della Banesto... E lo stesso Dio del ciclismo volesse che questo Pantani II si fermasse semmai a meditare, molto prima del Santuario di Oropa. Lo vorremmo eccome, irrazionalmente, un altro Pantani. (Anche perché, in un ciclismo postmoderno dove al massimo torna Bombini, ma i Coppi ed i Merckx no, siamo consapevoli della impossibilità di conoscerlo, anagraficamente, almeno noi).
Ma non vogliamo altri «casi Pantani», caro Museeuw, questo no!
E non dobbiamo volerli tutti insieme, però. E tantomeno consentiamo quella offensiva, più che intimidatoria, provocazione lanciata nel vago: «volete un altro caso Pantani». Questo, e di certo il suo primo mèntore Giorgio Squinzi potrà nobilmente convalidarlo, sarà possibile solo se di fronte alla esperienza di un evento così drammatico, quale è stata la tragedia del ragazzo Marco, ognuno abbia imparato ad assumere la propria dose di responsabilità e di autocritica.
O almeno a confessare una latitanza. Ciascuno nel suo specifico ruolo.
L’atleta, il tecnico, il medico sociale, il massaggiatore, lo sponsor, il procuratore, i compagni di squadra, gli amici di strada, la famiglia, le donne, i cronisti, i fini dicitori, i periti di parte, gli avvocati di comodo.
Ognuno nel suo intimo silenzio, semmai. Perché anche le parole, le più belle pure, in questo ambito, non hanno ulteriore diritto di cittadinanza.
Nè di ferire ancora mortalmente, come quelle del padre di Museeuw: «se mio figlio si fosse veramente drogato, io mi farei tagliare la testa».
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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