Guarnieri: «Io, Demare e il nostro treno perfetto

di Giulia De Maio

Il treno perfetto è «quello in cui non c’è bisogno di parlare, non serve dire nè “destra” nè “sinistra”, nel quale sai dove mettere la ruota semplicemente se­guendo il tuo compagno». La definizione è di Jacopo Guarnieri, il miglior ultimo uomo al mondo.
Il trentatreenne milanese di nascita ma piacentino d’adozione è stato il perfetto capotreno di Arnaud Demare, «chef de train» come lo chiama il ventinovenne francese che ha concluso il Giro d’Italia con quattro successi di tappa e la meritata maglia ciclamino. Co­no­sciamo il velocista più forte della corsa rosa, re della Milano-Sanremo 2016, grazie al suo amico e fedele compagno «Jacopò». Dall’alto del suo metro e novanta è lui che coordina i compagni, lui che grida il nome di Arnaud per as­sicurarsi che sia a ruota.
Lui il secondo a tagliare il traguardo a braccia alzate. Nelle ultime tre settimane in rosa è successo a Villafranca Tir­rena, Matera, Brindisi e Rimini.
Il meccanismo della Groupama FDJ è perfetto?
«In effetti oltre a cercarci, parliamo molto poco, anche perché avendo un piano in testa, cerchiamo di seguirlo al meglio. La perfezione non esiste, ma ci proviamo. Il lavoro comincia il giorno prima, studiando i percorsi con Google Maps e le app per prevedere il vento quando non possiamo fare una ricognizione».
Arnaud che tipo è?
«Essendo molto riservato nei confronti dei media, probabilmente non traspare quanto sia semplice, rilassato e pacato. Io lo sprono a lasciarsi andare, anche sui social. Al decimo tweet in cui dice che è felice per la maglia ciclamino, ci sta farne uno in cui si scherza sull’organizzazione del gruppetto per la tappa di salita che ci aspetta. Non è il classico velocista esuberante, di solito quando iniziano a vincere c’è chi si compra la Porsche, lui invece coltiva l’orto. In volata però tira fuori una grinta pazzesca, ha il pelo sullo stomaco come i migliori sprinter. In gara fa venir fuori un lato del carattere diverso da quello che mostra nella vita di tutti i giorni: da questo punto di vista è un po’ Dottor Jekyll e Mister Hyde».
Una particolarità rispetto ai capitani che hai avuto in passato?
«È molto empatico. Non ti sbatte in faccia i problemi senza considerare le tue opinioni, si mette nei panni degli altri in modo incredibile, è diretto ma sa come rivolgersi ad ognuno. Con i giovani questo approccio è importante per farli integrare nel treno. Quando tiriamo “a tutta” per riprendere la fuga, lui incita il compagno in testa al gruppo dicendogli via radio “vai come un treno, sei bravissimo, continua così”. Insomma sa motivarci e apprezza il la­vo­ro di tutti, anche dell’ultimo componente dello staff. Si fa ben volere».
In gara come si comporta?
«È determinato, ma non ha pretese particolari. Diamo tutti il cento per cento e lo sente, è sicuro dei suoi compagni. Al Giro aveva davvero una su­per condizione, ma nelle tappe dure, anche se avrebbe potuto tenere di più le ruote del gruppo, si staccava con noi per fare gruppetto. Ecco, lui è co­sì».
Dopo una vittoria è generoso?
«Sì e molto attento. Non si limita ad aprire il portafogli e a fare un regalo uguale per tutti, ma sceglie un pensiero mirato per la singola persona. Dopo i primi mesi di corsa insieme, ricordo alla partenza del Tour de France mi re­galò un lettore mp3, uno dei primi di alta qualità. Io sono molto appassionato di musica, con un escamotage mi aveva fatto rivelare il modello che volevo e io non mi ero accorto di nulla. Quando me lo diede mi sorprese, al di là del valore economico, perchè vuol dire che mi aveva ascoltato, aveva pensato a qualcosa che potesse davvero farmi piacere. All’epoca in squadra con noi c’era anche Davide Cimolai, a lui regalò una borsa, perché sa che è attento alla moda».
Come avete festeggiato la fine del Giro?
«Dopo la festa sul palco di Milano (la Groupama FDJ si è aggiudicata il premio Fair Play, ndr) abbiamo cenato in­sieme in hotel a Milano, restando nella bolla. Niente di speciale visto il periodo e le restrizioni ai locali».
Fuori dalle corse che rapporto avete?
«Ci sentiamo spesso, soprattutto tramite messaggi. A parte durante le vacanze, nel mese in cui siamo off lo siamo per davvero. Durante il lockdown ci siamo sentiti spesso, al suo matrimonio ero presente. Al ritiro di inizio anno, quando ci ritroviamo in Francia per le visite mediche, chiediamo di essere messi negli stessi giorni per stare un po’ insieme».
Come valuti questo strano Giro?
«Per quanto riguarda i risultati non potevamo sperare di meglio, per il re­sto una volta che sei in corsa non ci si rende conto di molto. C’è stato un po’ meno stress del solito non avendo il pubblico in zona bus, essendo vietati gli autografi e il contatto da vicino con i giornalisti. Siamo stati più concentrati su ciò che dovevamo fare in bici. Or­mai ci siamo abituati a indossare la ma­scherina prima e dopo la corsa, fa strano vedere poca gente sulle strade, ma la percezione che ci sia qualcosa di strano la abbiamo più negli hotel, pri­ma e dopo la gara, non durante quando siamo focalizzati sul nostro lavoro».
Come è cambiato il mestiere del ciclista da quando hai iniziato ad oggi?
«È sempre più esigente. Nelle prime gare da prof, era il 2008-2009, riuscii a centrare qualche risultato e per come mi allenavo allora oggi sarebbe impensabile. Anche con una condizione ap­pena sufficiente potevi cavartela, oggi sarebbe impossibile. E quest’anno an­cora di più. Ogni gara l’abbiamo corsa davvero full gas».
Nulla è lasciato al caso: tanti ritiri, alimentazione e allenamento curati all’estremo.
«Sì e no. È così per gli uomini di classifica e per alcuni team. Noi siamo un po’ diversi. Di ritiri e di altura ne facciamo poca. E questo mi piace visto che stiamo già molto lontano da casa per le gare. Prima del Giro siamo stati in ritiro sei giorni e basta. Pochi allenamenti, ma ben fatti. Quest’anno De­mare ha voluto provare a fare un po’ di altura dopo il lockdown ed è andato a Sierra Nevada. Ma solo lui. Siamo più liberi. Sono energie “nervose” che si risparmiano».
Giovani al potere. Cosa pensi del cambio generazionale in corso?
«Quando sono passato io, i tempi per vincere erano diversi, in generale si maturava più tardi. Non dico che i neoprofessionisti di oggi siano sfruttati, ma sanno già tutto e non hanno margini di miglioramento. Sono già al 100 per 100. Io ho sempre fatto una distinzione tra campioni e fenomeni. Il campione è quello che si ripete. Pogacar è un fenomeno. Froome è un campione. Se Tadej si ripeterà sarà un campione. Perché un conto è vincere senza pressioni e un conto è farlo con le attese di sponsor, media, con uno stipendio pe­sante. Nel corso del Giro ne ho parlato con Peter (Sagan, ndr). Un fenomeno-campione indiscusso, anzi una rock star».
Tu ormai non sei più un ragazzino. Cosa vedi nel tuo futuro?
«Spero di avere altri quattro anni buo­ni di carriera. Ho un sogno: andare alle Olimpiadi. Voci di corridoio dicono che il percorso di Parigi 2024 sia per velocisti. Quella è la meta, poi vediamo cosa succede strada facendo. Il mio lavoro per ora mi piace, per il do­po carriera qualche progetto per la te­sta ce l’ho. Per scaramanzia per ora però lo tengo per me».
A tuo avviso, come ha gestito il ciclismo questa pandemia mondiale?
«Abbastanza bene. Essendo il nostro uno sport itinerante, il fattore di ri­schio c’è, ma credo tutte le parti abbiano fatto del loro meglio. Organiz­zatori, squadre e noi non potevamo fare di più. A qualche fan an­drebbero tirate le orecchie, ne ho visti troppi ancora sen­za mascherina, comportamento oltremodo stupido visto che potrebbe compromettere ciò che vogliono seguire. Come movimento direi che ce la siamo cavata molto bene, fare tutti questi tam­poni è complicato, non tanto du­rante i grandi giri quando è l’organizzazione a farsene carico, ma quando di­sputiamo tante corse ravvicinate o tra l’una e l’altra torniamo a casa, come mi è successo ad agosto e settembre. Visto che il problema non sarà risolto dall’oggi al domani, per l’anno prossimo do­vremo perfezionare il protocollo adottato. Piuttosto che fare due tamponi ravvicinati prima di partire per la gara, converrebbe farne uno a casa e uno alla corsa prima di partire, anche perché è il viaggio il momento più ri­schioso. L’ideale sarebbe avere dei la­boratori sul posto della gara come è stato fatto per le grandi corse a tappe».
Alla fine di questa stramba stagione, cosa hai voglia di fare?
«Voglio passare del tempo con la mia bimba, Adelaide ha 3 anni e mezzo ed è uno spettacolo, in questo ultimo me­se mi è mancata molto».
Cosa ti auguri per il 2021?
«A livello agonistico l’augurio è quello di riuscire a ripeterci. Non tutti gli anni sono uguali. Ci siamo go­duti questo Giro e questa breve e in­tensa stagione. Extra bici spero questo momento molto difficile per tante persone, colpite dal virus e dalla conseguente crisi economica, passi il più in fretta possibile».
Speriamo il Covid-19 corra via veloce, co­me fa Arnaud quando si mette alla ruota di Jacopo.

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