
Riccò. Lui, Silvano, da Vignola, del 1959, non l’altro, Riccardo, da Sassuolo, del 1983, 14 anni e 25 chilometri di distanza. Silvano Riccò, professionista dal 1982 al 1987, due vittorie e cento piazzamenti, e un terzo posto alla Milano-Sanremo, quella del 1985, che sa ancora di gloria e rimpianto, di onore e rimorso, di orgoglio e rammarico. Al Giro d’Italia ha collezionato ricordi e storie.
Silvano, la tappa più disgraziata?
«Giro d’Italia del 1984, la Bologna-Numana, 238 chilometri, Laurent Fignon in maglia rosa. Conoscevo l’arrivo. Se riesco a infilarmi nell’ultima curva – ripetevo a me stesso come un mantra – se non vinco, almeno mi piazzo. Attenzione al finale – spiegavo ai miei compagni – c’è una curva a S, è pericolosa, si può cadere. Ultimo chilometro, gruppo compatto, io davanti, Roger De Vlaeminck di fianco, la famosa curva, provai a spostare De Vlaeminck, come se fosse possibile, come se fosse facile, come se fosse semplice, ci sarebbe voluto un trattore, tant’è vero che fu lui a spostare me. Comunque nella circostanza fui buon profeta: caduta. Chi cadde? Io».
La tappa più sofferta?
«Giro d’Italia del 1983, la Selva di Val Gardena-Arabba, 169 chilometri e cinque colli, Campolongo Pordoi Sella Gardena e ancora Campolongo, vittoria di Alessandro Paganessi, Beppe Saronni in maglia rosa. All’inizio detti battaglia, finii presto la benzina, scivolai nel gruppetto, e se non ci fosse stato Massimo Ghirotto a spingermi, e forse anche qualcun altro – eravamo in buoni rapporti anche se correvamo in squadre diverse - non sarei mai arrivato. Per gli altri era giorno, per me notte fonda».
La tappa più contestata?
«Giro d’Italia del 1983, la Terni-Vasto, 269 chilometri, pronti, via, a tutta. Bruno Reverberi ce l’aveva ordinato: scaldatevi e attaccate. Voleva fare la corsa. Fu battaglia e sfarfallio. Davanti noi della Termolan, dentro anche Saronni e Visentini, gli altri a inseguire. Quando il gruppo ci raggiunse, ce ne dissero di tutti i colori e in tutte le lingue. Perché quelle erano tappe e anni in cui si faceva la guerra solo negli ultimi 50 chilometri o quando l’elicottero della tv cominciava a volare sopra di noi».
La tappa più drammatica?
«Non al Giro d’Italia. Era il 1979. Si correva in Sicilia. A un passaggio a livello cadde Freddy Maertens. L’unico ad accorgersene fu Carletto Menicagli, direttore sportivo di un’altra squadra. Si fermò, lo raggiunse, fu prontissimo a tirargli fuori la lingua altrimenti Freddy sarebbe morto soffocato, gli salvò la vita. L’anno dopo Maertens avrebbe corso nella San Giacomo, la squadra di Menicagli. E ogni volta che sarebbe venuto in Italia Freddy passava sempre a trovare Carletto a casa sua».
Erano gli anni di Moser e Saronni.
«Gli sceriffi, molto più Moser di Saronni, se Saronni promuoveva una protesta, Moser tirava diritto. Comandavano in corsa, comandavano anche in volata. C’erano tre treni: i loro due e quello di Guido Bontempi. Noi altri ci dovevamo arrangiare, infiltrandoci, infilandoci, nascondendoci. Da soli. Io potevo contare sull’aiuto del mio compagno di squadra e stanza Giuseppe Montella, cugino di Vincenzo il calciatore. Quando passai all’Atala, entrai nel treno per Pierino Gavazzi. Ma non era la mia vocazione. La tattica era sempre quella, eppure ogni sera Franco Cribiori – dialogo zero - teneva la lezione tattica sulla tappa del giorno dopo, e la conclusione non cambiava mai, non prevedeva altro che portare Pierino in volata».
Se lei avesse vinto alla Sanremo?
«Sarebbe cambiata la mia vita. L’avevo battezzata, l’avevo dichiarata, attaccai ad Arma di Taggia, sul Poggio scollinai con l’olandese Van der Vliet, in discesa fummo raggiunti da un altro olandese, Kuiper, suo compagno di squadra, non l’avevo mica visto, si era nascosto dietro un’auto, e quando Kuiper scattò a due o tre chilometri dall’arrivo, non avevo più gambe per rispondergli».
Invece vinse il Giro della provincia di Reggio Calabria.
«Una settimana dopo. Palmiro Masciarelli era da solo all’ultimo chilometro. Lo inseguii, lo raggiunsi, lo superai a 10 metri dal traguardo. Ci rimase malissimo».
Silvano, lei smise presto, a 28 anni. Perché?
«Mi dispiaceva ma fui costretto: per correre volevo essere pagato e non dover pagare. Così aprii un negozio di ferramenta. La mia seconda vita».
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