The winner is... Tadej Pogacar

di Pier Augusto Stagi

Tamao non ha paura. Non ne ha mai avuta. E al Tour non ha temuto di gettare alle or­ti­che tut­to, per questo si è portato a casa ogni cosa. Si fa prima a dire cosa ha la­sciato agli al­tri: una maglia verde, quella della classifica a punti, che se l’è portata a casa l’irlandese Sam Bennett. Per il resto, tutto suo: tre tappe, più maglia gialla, bian­ca e a pois così, tanto per gradire. Tadej Pogacar, il bimbo del ciclismo mondiale, Tamao per gli sloveni, è il nuovo che sa di antico, anche se il suo modo di correre, spregiudicato e baldanzoso, non ha i colori seppiati del tempo passato. È contemporaneo.  
Tre maglie, tre tappe e tre immagini: chiare, che riassumono un Tour pazzesco. Settima tappa, Millau-Lavaur, do­po 168 km vince il fenomenale Wout Van Aert. Il belga della Jumbo Visma, compagno di squadra di Roglic non an­cora in giallo (c’era Adam Yates, ndr), precede Boasson Hagen e Coquard. A causa di un maligno “ventaglio”, il bim­­bo sloveno arriva 43° a 1’21” da Roglic e compagnia. Tornato in albergo, Tamao non si perde d’animo e sentenzia: «Tran­quil­li, domani vado all’attacco!». Inutile il tentativo di dissuadere il bimbo a sprecare energie inutilmente. Per la serie: il Tour è lungo, caro Tamao. Niente da fare, il bimbo fa di testa sua, segue il suo istinto e sul traguardo di Loudenvielle (vittoria di Nans Peters, ndr) guadagna come promesso parte di quello che aveva perso: cioè 40” tondi tondi.
Seconda immagine. A Villard en­ne­simo affondo di Pogacar: buco chiuso a fatica da Roglic, il quale il giorno dopo, sul Col de La Loze, ha la possibilità di giocarsi il “match point”. Po­gacar è chiaramente in affanno, ma la maglia gialla o non se ne accorge o non ha la forza per approfittarne e chiudere i giochi in suo favore: se ne pentirà amaramente.
Terza immagine. Prima del via della crono a La Planche des Belles Filles, Tamao si avvicina sorridente e sereno per salutare la maglia gialla che, china sui rulli, fatica ad alzare la testa: il vol­to è ceruleo, gli occhi spenti nel vuoto. Non è una bella immagine. Tamao, in­vece, è il volto della serenità; Roglic quello del dubbio. «Pensavo di andar bene e invece non stavo sviluppando i watt che volevo», dirà. «Non sentivo nulla e non guardavo niente. Pensavo solo a pedalare il più veloce possibile», replicherà Pogacar.
Il dramma si consuma prima della cro­no, già sulla pedana, nella fase di riscaldamento: la maglia gialla sembra sotto stress, Tamao sotto l’ombrellone con pa­letta e secchiello.
Nulla sarà più come prima? Questa è la prima domanda che viene rivolta al nuovo re del Tour. Il bimbo non si scompone, e sereno come pochi replica. «Credetemi, resterò sempre lo stesso. Certo, qualcosa è cambiato e cambierà: non sono abituato a tutti questi giornalisti, poi ho il telefono intasato. Avrei voluto parlare con mamma e papà, sono riuscito a sentire a malapena per due minuti solo la mia ragazza (Urska Zigart, ciclista pure lei: ha corso il Giro d’Italia rosa con la Alé BTC, ndr)».
Se Roglic è stato il primo sloveno a vincere un Grande Giro, lui è il primo sloveno a vincere il Tour: mica la stessa cosa. Alla prima stagione da professionista aveva già festeggiato otto successi, tutti di peso. Dopo la classifica ge­nerale alla Volta ao Algarve, al Tour de California si è laureato a 20 anni il più giovane vincitore di una corsa World Tour. È il più giovane vincitore del Tour, secondo solo a Henri Cornet che vinse la Grande Boucle nel 1904, all’età di 19 anni, 11 mesi e 20 giorni. Come se non bastasse, il neoprof della UAE Emirates, vincitore del Tour de l'Avenir 2018, nella sua prima corsa a tappe di tre settimane, la Vuelta, ha conquistato tre bellissime tappe, la classifica giovani ed è salito sul podio finale. La sua è una storia bellissima.
«Abitiamo nel piccolo villaggio di Ko­menda, a 30 minuti di auto dalla capitale Lubiana e a poche ore dal mare Adriatico - si racconta Tadej -. Papà Mirko lavora in una fabbrica che produce sedie per ufficio, mamma Marjeta è professoressa alle superiori. Ho una sorella maggiore, Barbara, che ha 28 anni e lavora come ingegnere elettrico; mio fratello Tilen, che ha 2 anni più di me, frequenta l’università; infine c’è Vita che ha 14 anni e frequenta la scuola. A casa sono tutti molto felici per me, anche se ho sempre meno tempo per stare con loro. Urška è fondamentale, mi capisce e dà motivazione, così come Andrej Hauptman (ex professionista e attuale diesse della Uae Emi­rates nonché CT della Slovenia, ndr), mio allenatore da quando ero junior, che per me è come un padre sportivo. In generale devo dire grazie a tutte le persone che hanno lavorato con me negli anni passati e dal 2019 alla UAE Emirates. Non posso dimenticare i miei amici e i tifosi, il cui affetto è speciale».
Un successo che nasce in Slovenia, do­ve esiste un percorso formativo importante, gestito direttamente dal governo che investe grandi risorse in strutture e docenti. Seguono i bambini e assegnano borse di studio. Con poco più di due milioni di abitanti (la Lombardia ne ha cinque volte di più) hanno fatto primo e secondo al Tour e fanno incetta di titoli e talenti in diverse discipline sportive: dallo sci al ba­sket, dalla pallavolo al calcio.
«È chiaro che da solo non sarei andato da nessuna parte - spiega -. Non so co­me ho fatto, ma sono molto orgoglioso del mio team: hanno fatto un grande sforzo. È chiaro che non siamo stati molto fortunati: Formolo ha lasciato per un infortunio dopo una caduta, Aru ha avuto dei problemi. Due assenze pesanti, ma siamo stati capaci di fare un grande Tour lo stesso. Momento difficile? Sul Col de La Loze: avevo speso molto nelle tappe precedenti. Capita non essere al meglio, ma nessuno si è accorto di niente e anche in quella occasione sono stato bravo. Questo è il sogno della mia infanzia. Da bambino sognavo di poter correre un giorno al Tour e io non l’ho solo corso, l’ho persino vinto».
Pogacar è entrato a far parte di un club d’eccellenza composto da Fignon e Hinault, Merckx e Gimondi, Anquetil e Koblet, Coppi e Robic: tutti trionfatori-debuttanti al Tour dal 1945 in poi.  Insomma, così giovane ha già scritto un bel po’ di storia.
«Non mi piace lo stress, non soffro la pressione e non mi piace arrabbiarmi - dice candido -. Sono uno che lascia scorrere le cose non importanti. Non m’importa troppo se perdo. So che può capitare, anzi capita spesso, ma l’importante e rifarsi. Quando si corre è più facile perdere che vincere: dovrei forse essere sempre arrabbiato? Certo che no. Meglio metterci una pietra so­pra. Le sconfitte aiutano a capire, a comprendere i propri limiti. Le sconfitte, se prese per il verso giusto, aiutano a migliorarsi. Le vittorie sono il giusto premio per il lavoro svolto».
È un filosofo del pedale, manco fosse Guillaume Martin. Ma è anche uno storico, nel senso che si ricorda bene le cose e le sa raccontare: «Se mi ricordo la prima corsa? Certo che sì. Era il 2008: arrivai ultimo, quarantesimo su quaranta ragazzi, ma ero felice perché avevo corso. La prima vittoria arrivò solo l’anno successivo. Per me la bici inizialmente è stata un gioco, ora è chiaramente un lavoro, ma lo faccio con lo stesso spirito. Ho cominciato perché un amico dei miei genitori allenava il team giovanile del paese e per imitare mio fratello sono salito in sella anch’io: volevo fare tutto quello che fa­ceva lui. La mia prima bici? Verde, in alluminio, di seconda o terza mano, ma per me era bellissima».
Ragazzo sereno e spensierato, ama so­prattutto le cose semplici e stare con Urška, guardando film e cucinando. «So­no golosissimo di hamburger, di pizza e al mattino amo i pancakes; mi piace cucinare ma Urska è più brava di me. Mi diverto da pazzi con i videogiochi, ma anche con i classici giochi in scatola. Amo stare all’aperto e fare escursioni a piedi. Pratico ciclocross e mtb e in tv seguo tutti gli sport. Il mio film preferito? Mi piacciono le saghe di Harry Potter e del Signore degli Anelli. Per quanto riguarda la musica ascolto spesso Eminem, ma non ho una playlist speciale».
Se non avesse fatto il corridore?
«Sicuramente avrei continuato a studiare e avrei lavorato ma non ho la più pallida idea in che ambito. Ho frequentato un istituto meccanico, poi mi sono iscritto alla facoltà di Management sportivo, ma ho lasciato l'università per concentrarmi sulla bici. Forse la laurea mi sarebbe stata utile, ma al momento non ho intenzione di rimettermi sui li­bri. Però mai dire mai». Intanto si è laureato sui Campi Elisi, università del ciclismo. La tesi? Come vincere il Tour de France al primo colpo. Voto: 110 con lode e bacio accademico.

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